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Partenopeismi

Dosate il becco e vi dirò chi sono

Ne ho sentite davvero tante sul mio conto, dalla più bella alla più sgradevole.

Vesto la casacca della squadra della mia città dal 2012 e in questi lunghi cinque anni  mi sono state appiccicate sulla fronte etichette di vario genere, spesso in contrasto tra loro. La cosa che fa specie è che a confezionare gli adesivi non siano stati i tifosi (gli unici che hanno il diritto di farlo in quanto privi di certificazione di competenza), ma gli addetti ai lavori.

Venivo da anni splendidi, anche se giocati in categorie inferiori: 19 reti a Foggia in serie C, ben 18 a Pescara, in B. Poi il riavvicinamento a casa, nella mia Napoli.

Il periodo buio

I primi anni in azzurro non sono stati facili. Ho collezionato appena 10 reti in tre anni giocando tra l’altro spessissimo (37-36-20 presenze da titolare). Le certezze ti vengono meno, la convinzione di essere all’altezza anche. Le doti restano, quelle te le ha donate il padreterno, ti resta il convincimento di essere un talento ma non la certezza di essere in grado di sfondare e saperti affermare nella massima serie.

Ti ritrovi in uno stadio che incute timore, ti senti addosso le esigenze dei tuoi tifosi, della tua gente, della tua famiglia. Vorresti spaccare il mondo, strafare, guardare nei loro occhi la soddisfazione per quello che sei riuscito a donar loro. Scendi in campo e non riesci a dosare le energie, non riesci ad essere lucido. Le ricordo come se fosse oggi le urla di mister Mazzarri quando cercavo continuamente quel tiro a giro, era l’unico a cui potevo affidarmi nella speranza di vedere quella palla nel sette della porta avversaria. Ero accecato dal desiderio di vedere i tifosi ai miei piedi. La partecipazione alla manovra, l’unica a cui avrei dovuto affidare il mio talento, era in quel periodo una incancellabile chimera. Ma non me ne rendevo conto.

Devo essere onesto nei confronti dei mister che mi hanno allenato in questi anni: loro mi hanno aspettato. La platea dei giudici sovrani no. Questi tre anni in sordina mi hanno fatto precipitare dal castello di Pescara nel quale avevo faticosamente riposto tutte le mie certezze. Dopo i primi tre anni di Napoli, sono stato etichettato come un calciatore normale e pure privo di quella personalità necessaria per divenire il simbolo di questa squadra.

Come Picasso: pennellate e periodo rosa

Per Picasso il periodo rosa corrisponde ad una fase in cui il passato ha lasciato il posto ad un mondo più idilliaco e sereno. Anche per me è stato così.

Gli ultimi due anni in azzurro, quelli coincisi con l’arrivo alla guida del Napoli di mister Sarri, mi hanno riconsacrato. Qualcosa mi è scattato dentro. Magari sono cresciuto, maturato, ho trovato la forza in me per non farmi condizionare dal mondo esterno e dalla pressione che avvertivo in precedenza. Ho riacquisito naturalezza nelle giocate, fatto sta che tutto mi è venuto tutto nuovamente facile.

La fiducia è cresciuta di nuovo, la convinzione nei propri mezzi anche. Adesso per tutti sono una specie di fuoriclasse, dico una specie per non scomodare quelli veri. Adesso non mi manca nulla, sono tecnicamente al di sopra della media, svolazzo sulla fascia di competenza come un anguilla impazzita, ripiego e aiuto i compagni nella fase difensiva, punto e attacco gli avversari con la ferocia di un leopardo e la velocità di una gazzella. Protesto, mi dimeno, mi faccio sentire come fa un vero leader, ma soprattutto faccio gol.

Lo ammetto, l’aiuto finale me lo ha dato Mertens che mi ha messo nella condizione di credere nuovamente e definitivamente in me. Lo ha fatto nel modo più imprevedibile che potessi immaginare: spostandosi in posizione di punta centrale e lasciandomi titolare indisturbato della corsia sinistra.

Vedete, non ci sono teorie certe in merito: qualcuno sostiene che i dualismi facciano bene, stimolino e consentano di dare il massimo. Altri sostengono, invece, che minano certezze. Io che vivo lo spogliatoio, vi dico che non esistono regole prestabilite e valide per tutti. Vi dico che ogni calciatore è innanzitutto un uomo e in quanto tale diverso da tutti gli altri e va dunque trattato in maniera personalizzata.

E solo chi gestisce gli uomini prima che i calciatori può sapere e valutare. Chi lo fa dall’esterno dovrebbe avere molto più tatto nel farlo, dovrebbe avere la capacità di valutare aspetti imponderabili, o quantomeno dovrebbe saper aspettare l’evoluzione di crescita di un calciatore prima di esprimere rigidi e definitivi giudizi.

Lorenzo Insigne non ha dimenticato il passato. Non ha dimenticato le critiche che gli sono state mosse e soprattutto le categorie nelle quali è finito con troppa frenesia e fretta.

Adesso ho 26 anni e calcisticamente non sono più un pivello, sono piccolino ma ho le spalle forti.

Ma in questa città sono arrivati e continueranno ad arrivare talenti purissimi ma acerbi, immaturi ed inesperti. Almeno con loro fate quello che non avete fatto con me: aspettateli.

About author

Guido Gaglione è docente di arte e immagine, operatore di ripresa e giornalista pubblicista dal 2015.
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