Non è questione di Napoli o Inter, di napoletani o interisti, di nord o di sud. E’ una questione di quaquaraquà.
A Milano è stata massacrata l’identità di un uomo, quella di Kalidou koulibaly. Ma non è un evento nuovo, è già successo altre volte, è già successo altrove. Tra una volta e l’altra solo un mare di retorica, un fiume di parole dal gusto sgradevole, proprio come una pietanza sciapita riproposta ciclicamente e ingerita controvoglia.
Non commenteremo il fatto, si darebbe solamente l’ennesimo contributo allo show della magniloquenza.
Vi facciamo però un invito. Mettetevi un attimo nei panni di una persona ignorante che reputa giusta ogni forma di discriminazione sociale. Quale sarebbe il posto in cui vi sentireste più liberi di esprimere i vostri desideri? Ne siamo consapevoli, la domanda non è degna del compianto Mike Buongiorno, troppo banale le risposta: lo stadio.
E per stadio non intendiamo il Meazza di Milano. O meglio, non solo quello. Anche lo stadio San Paolo di Napoli è stato ed è ancora palcoscenico di deturpamenti sonori di questo tipo.
Non è il momento di discutere il principio morale, forse, è più semplice provare a trovare una soluzione tampone. Facciamocene una ragione, ad oggi, lo stadio è come una bolla di sapone all’interno della quale chi non è tenuto a far nulla fa tutto e chi è tenuto a far tutto non fa nulla. L’impunità e il libertinismo sono gli unici messaggi che viaggiano da una passione all’altra persuadendo ogni fruitore che ne viene investito.
Forse è utopico far svoltare culturalmente questo Paese, non lo sarebbe, però, creare i presupposti affinchè un evento – che nulla ha più a che vedere con lo sport – sia palcoscenico degno di una cultura ormai dissipata. Uno stadio non deve essere scenario di cori razzisti. E invece, indisturbato, continua ad esserlo.
Di chi è la responsabilità?
Il procuratore federale dice che un arbitro non può sospendere una gara di calcio; Il presidente dell’Aia invita gentilmente il procuratore federale a fare il suo mestiere; Il Ministro dell’Interno dice che non può fare niente perché lui non è né presidente di lega né arbitro.
E allora a chi spetta prendere una decisione?
Il regolamento, in tal senso, parla chiaro e si rifà alla procedura ufficiale stabilita da Fifa e Uefa, recepita dal calcio italiano nel 2013, sull’onda emotiva degli ululati che i tifosi della Pro Patria riservarono all’allora giocatore milanista Kevin-Prince Boateng: da regolamento, alla prima avvisaglia di cori finalizzati alla discriminazione razziale o territoriale, l’arbitro è tenuto a sospendere momentaneamente la partita e a diffondere un annuncio, tramite lo speaker. Alla seconda infrazione le squadre dovranno essere richiamate a centrocampo, mentre un secondo annuncio sarà diffuso dagli altoparlanti. Se la situazione non dovesse migliorare, la terza sospensione potrebbe portare all’interruzione definitiva del match, una decisione riservata in questo caso al responsabile dell’ordine pubblico. Molto complesso, vero?
Quindi, nel caso specifico, a sbagliare è stato il signor Mazzoleni che, a seguito dei primissimi cori razzisti, avrebbe dovuto interrompere momentaneamente la gara. Solo la reiterazione dei cori incivili avrebbe passato la patata bollente tra le mani del responsabile dell’ordine pubblico per l’eventuale sospensione definitiva della gara.
Nonostante la banalità del provvedimento, si continua però a non attuarlo. Ed oggi, dalle parole di Gravina, abbiamo addirittura capito che sarà molto difficile vedere in Italia una gara sospesa per razzismo. Quindi? Siamo destinati a vivere questo schifo tutte le domeniche? In effetti, se ci guardiamo alle spalle, la risposta non può che essere che un inconcepibile si.
Quindi non c’è da essere ottimisti. Il futuro si paventa gemello del passato. Si ipotizzano curve chiuse e trasferte vietate, provvedimenti qualunquisti che finiscono per penalizzare anche chi, magari con moglie e bambini al seguito, avrebbe solamente avuto voglia di gustarsi lo spettacolo del calcio allo stadio.
La verità è che il movimento calcistico tutto non ha un interesse prioritario che vira verso la risoluzione del problema: le società zittiscono, i media cavalcano l’attualità, le piattaforme televisive divulgano passione e gli spettatori, malati di dipendenza, accendono il tasto ON sulla prosecuzione del gioco. Di conseguenza il tasto OFF si pigia a tempo determinato sui fatti incresciosi che ciclicamente sono destinati a ripetersi senza sosta.
I problemi si risolvono se si vogliono vedere. Altrimenti, si vestono da magma latente pronto a creare disastri quando la fatalità decide di prendersi la scena.