Quando un anno e mezzo fa De Laurentiis si presentò con Carlo Ancelotti per un nuovo ciclo tecnico, tutti quanti noi, chi con maggior enfasi, chi con silenziosa speranza, abbiamo pensato: “Vuoi vedere che qui adesso si fa sul serio davvero?”, “Forse è arrivato il momento di vincere”.
Di certo uno come Carlo Ancelotti non si scomoda per fare da comparsa. L’idea è diventata assioma in un batter di ciglio, a blindare la nostra sicurezza di osservatori e tifosi della causa azzurra.
Erano i giorni del post Firenze, dello scudetto “perso in albergo” con Sarri che dondolava tra il “Si” ed il “No”, con il Napoli più bello di sempre e del record di punti della storia, che si era appena visto scippare il tricolore dal petto, dopo un’altalena infinita di emozioni.
Era, o meglio, sarebbe dovuto essere l’inizio del definitivo salto di qualità, di un ciclo che avrebbe dovuto portare alla conquista di un titolo importante, in Italia e in Europa. Un Napoli finalmente vincente e non solo bello da vedere, questa la “main-promise” che portava in dote Carlo Ancelotti.
I bei propositi – Dopo nemmeno un anno e mezzo, il brusco risveglio per quei pochi che hanno tentato fino all’ultimo di crederci, impresa titanica a dir poco, perché i segnali del dissesto erano ben chiari ed evidenti anche prima di Napoli-Genoa.
Carlo Ancelotti ha fallito, lo diciamo a chiare lettere. Ha fallito, in primis, perché lui stesso ha sbandierato sin dal suo arrivo e senza filtri i suoi propositi di vittoria:
“Sono qui per iniziare un ciclo che dovrà portare il Napoli alla vittoria dello scudetto”
e poi ancora
“Secondo posto? Mi viene la pelle d’oca…il secondo posto non basta più, dobbiamo portare a casa qualcosa”
Dichiarazioni rese al momento della firma e poi a Dimaro all’alba di questa stagione. Dichiarazioni rimaste tali, perché lo spettacolo che il Napoli ha fornito, nei fatti, sul campo da gioco, è stato di livello infimo. Una squadra, il Napoli, che a detta dello stesso tecnico di Reggiolo aveva “delle conoscenze importanti”, ma ormai completamente smantellata nelle sue fondamenta ed ormai ridotta al minimo storico dell’ultimo decennio.
Il Napoli non ha un’identità, né un gioco e non ha mai avuto davvero una forma definita. Un anno e mezzo c’è voluto per distruggere il Napoli, un anno e mezzo per farne la versione miserabile di sé stesso, inseguendo la chimera del “calcio liquido”: un manipolo di ragazzotti impauriti, una squadra mai dominante, piena di contraddizioni tattiche e distrutta nel morale e nello spirito.
Il primo colpevole – Le colpe in questi casi sono di tutti, a partire dalla società, incarnata nella figura ingombrante e mal sopportata di Aurelio De Laurentiis, passando per i calciatori, protagonisti indiscussi nel bene prima e nel male poi, per finire con quello che resta a nostro avviso il maggior artefice di questo disastro sportivo: Carlo Ancelotti.
E’ lui il principale responsabile di questo sconquasso, perché nel calcio quando la squadra non gira il primo colpevole è sempre l’allenatore: il Napoli non c’è più, è una squadra avviluppata sulle proprie paure, uscita a testa bassa col Genoa, tramortita dai fischi di 20.000 tifosi delusi e mortificati, per il deplorevole ammutinamento del post-Salisburgo che avrebbe lasciato immaginare ben altra prova.
Ancelotti ha colpe infinite e chi dice il contrario rischia di coprirsi di ridicolo, a questo punto. Ha colpe evidenti proprio perché si chiama Carlo Ancelotti. Da lui ci si attendeva ben altro, perché lui stesso aveva dichiarato che con la sua esperienza ed il suo bagaglio, avrebbe contribuito all’ultimo salto, quello definitivo di un gruppo pieno di “conoscenze” tecnico-tattiche.
I sogni e le illusioni si sono persi per strada, nelle pieghe di una mediocrità apparsa via via evidente ed ineluttabile. Una squadra confusa, senza idee e logica, una strategia di gioco spacciata come innovazione di un calcio futuristico che ha finito con lo svilire un patrimonio tecnico ed un grande bagaglio tattico, faticosamente raggiunti.
Le colpe di Carlo – La colpa più grande è stata quella di aver avallato un mercato contraddittorio e disomogeneo, pieno di punti interrogativi, spingendosi a valutazioni presuntuose:
“Il mercato del Napoli è da 10: ci prendiamo la responsabilità di dire che dobbiamo e vogliamo lottare per vincere il campionato”.
Parole e musica firmate Carlo Ancelotti da Reggiolo.
L’ analisi non può che partire da lontano, dalla cessione di Marek Hamsik nel gennaio scorso. Una cessione improvvisa, inattesa e mai digerita. Una cessione che ha procurato una voragine, in mezzo al campo e nel cuore di un gruppo intero. Hamsik era luce e faro di questa squadra, impossibile farne a meno a cuor leggero. Eppure non è mai stato sostituito, così come era stato fatto prima di lui con Jorginho, scelte che portano la firma precisa di Ancelotti.
Bandito il 4-3-3 ad inizio stagione scorsa, si è passati ad un canonico 4-4-2, scelto come modulo “ideale” per questo organico, pieno zeppo di ali e di qualità in avanti, ma tanto sguarnito in mezzo al campo.
La scorsa estate sono partiti altri due centrocampisti (Diawara e Rog), lasciando il solo Allan a tirare la carretta in mezzo al campo, con il solo innesto del diciannovenne Elmas a far da contorno. Una squadra costruita male ed allenata peggio, con un peccato originale a far da presupposto imprescindibile che diventa semmai aggravante: l’organico è infarcito di mezze punte e di centrocampisti di qualità, con una mediana priva di nerbo, muscoli e uomini di fatica.
L’ intero ritiro, poi, è stato impostato sul 4-2-3-1, aspettando un Godot che avrebbe dovuto illuminare il gioco: James Rodriguez. Il trequartista non è mai arrivato, tra mille polemiche anche per la gestione discutibile della comunicazione del club, costringendo il tecnico a tornare sui suoi passi, per ripiegare ancora sul 4-4-2 della scorsa stagione, che doveva avere, semmai, i crismi della transitorietà.
Ancelotti ha fallito anche e soprattutto nella gestione umana del gruppo, un connubio sgretolato e completamente sconnesso, che non ha mai trovato pieno appagamento ed un minimo sbocco. La consapevolezza e le convinzioni della squadra si sono smarrite nella girandola di un turnover scellerato, che ha divelto i punti fermi ed amplificato la confusione.
Ciclo finito, anzi mai iniziato – E’ evidente che siamo di fronte alla fine di un ciclo che avrebbe dovuto, per stessa ammissione dei diretti interessati, portare ben altri risultati. La prospettiva è preoccupante, lo dicono i numeri raccolti finora.
Il Napoli ha smesso di giocare già a gennaio 2019, lo abbiamo visto tutti, ma abbiamo fatto finta di non vedere. Da allora la squadra non si è più ripresa, lo testimonia il trend. lo dicono i numeri che ha raccolto da quel momento in poi. Il timore che il Napoli sia inadeguato a centrare finanche l’obiettivo minimo stagionale, ovvero il quarto posto, è ora più che mai concreto.
I numeri relativi a tutto il mese di ottobre 2019, senza l’aggravio di questo inizio di novembre horror, parlano chiaro: la media è di 1,88 punti a partita. E la proiezione di fine campionato di 71,7 punti, una quota che deve far suonare campanelli d’allarme in casa azzurra in vista del quarto posto, perché negli ultimi anni non sempre 71 punti sono bastati per raggiungere la quarta posizione. Il trend è addirittura peggiore se ampliamo il campione alla scorsa stagione, da gennaio in poi.
Questa tendenza è destinata a peggiorare, sic stantibus rebus. Ed in certi casi vanno prese le decisioni forti e nette, se si vuol almeno tentare di invertire il trend. Oggi una certezza c’è ed è inequivocabile: il ciclo di Carlo Ancelotti a Napoli, semmai sia partito davvero, è definitivamente tramontato.