Saremmo bugiardi se dicessimo che fino al gol-liberazione di Lorenzo Insigne non abbiamo avuto dinanzi agli occhi il fantasma del Napoli di Sarri, di quella manovra avvolgente e ritmata, di quella rassicurante sensazione di appartenenza ad un credo tattico consolidato.
Lo stupore a cui abbiamo cercato di dare una spiegazione è stato dettato da una domanda banale: perché il Napoli guidato dal trainer più titolato al mondo non riesce ad essere bello e vincente come quello di un tecnico salito alla ribalta solo grazie all’ennesima intuizione vincente di Aurelio De Laurentiis?
L’ipotesi da scartare – che è poi anche quella più blasfema – è che Carlo Ancelotti non sia altrettanto bravo. E allora perché il Napoli sembra avere meno certezze? Perché non è sicuro e dirompente come nel suo recente passato?
Maurizio Sarri aveva la sua filosofia, il suo credo: gli uomini a sua disposizione dovevano esserlo di nome e di fatto, avevano l’obbligo di aderire a dettami tattici rispettandone i crismi. L’esercizio spasmodico e la ripetizione petulante dei movimenti era destinato a plasmare il singolo ed imprigionarlo in automatismi la cui ripetitività produceva bel gioco e una identità lapalissiana.
Queste ultime possiamo definirle parole di elogio o di critica? Il dibattito è aperto.
Quel Napoli ha deliziato il palato di tutti noi, è stato bello, entusiasmante e vincente ma ha anche mostrato i suoi limiti, magari quando le partite non riuscivano a sbloccarsi, per non parlare della deleteria e drammatica gestione della rosa con calciatori divisi in fazioni: quelli spompati e quelli scontenti. A fare da supervisore – poi – vi era un Presidente sul piede di guerra nei confronti del proprio tecnico reo di aver depauperato una serie di investimenti.
Insomma, uno spettacolo straordinario che a palcoscenico chiuso lasciava venir fuori una serie di tensioni di non poco conto.
Ma la domanda da porre su quel Napoli è soprattutto un’altra: un buon calciatore poteva diventare ottimo se non gli si ostruiva il canale attraverso cui poteva (e forse doveva) scorrere la capacità di inventare, autogestirsi, responsabilizzarsi, di capire cosa fare, quando fare e come fare?
Facciamo un esempio pratico: abbiamo goduto innumerevoli volte nel vedere Insigne scorribandare sulla sinistra e servire al bacio gli inserimenti di Callejon. Avevamo imparato a farlo a memoria, riusciva benissimo anche nei confronti di avversari che ne erano a conoscenza. Ma forse è anche vero che in altre situazioni di gioco la totale adesione a questo collaudato meccanismo ha limitato lo sviluppo di altre competenze, come ad esempio la capacità di trovare un’alternativa a ciò che avevano imparato benissimo.
Sarri aveva stilato una serie infinita di ipotesi di gioco con le relative soluzioni da attuare. Lui aveva deciso cosa avrebbero dovuto fare i suoi calciatori in ogni situazione, donando certezze ma limitandone la responsabilità.
Forse, oggi, lo scopo di Carlo Ancelotti è proprio questo: affiancare alle straordinarie competenze acquisite durante il ciclo Sarri la capacità di guardare al di là della lezione imparata a memoria e trovare autonomamente soluzioni diverse in relazione ad una determinata condizione di gioco. Chissà se i tanto paventati limiti caratteriali di questa squadra non hanno bisogno proprio di questo tipo di stimolazione per essere debellati.
Un percorso che genera inevitabilmente una serie di negatività come la paura, l’incertezza, la destabilizzazione, la confusione. Tutte cose viste ieri al San Paolo. Ma si è vinto. E, mai come in questa fase, è opportuno riesumare il credo dell’allenatore meno amato ma più vincente d’Italia, quel Massimiliano Allegri che annoiando i suoi tifosi ne ha contestualmente arricchito la bacheca.