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Quando non si gioca sul velluto, tende a svagarsi: questa è la conclusione a cui si arriverebbe, dopo un’analisi a grandi linee degli anni partenopei di Fabian Ruiz. Analisi figlia dei due anni di servizio prestato all’ombra del Vesuvio, inziato con le stimmate del predestinato e svolto tramite piedi aristocratici di rara eleganza.

Purtroppo, vuoi per equivoci di disposizione tattica, vuoi per una gestione tecnica sfortunata, il talento andaluso ha rispettato solo in parte le enormi promesse che accompagnavano il suo acquisto.

Ad oggi, tra luci e ombre, il ventiquattrenne iberico ha mostrato solo a sprazzi ciò che il suo talento premetteva, alternando magie e fiammate a giocate persino controproducenti, spesso corollario di prestazioni senza mordente. La sensazione è che, al netto delle rivoluzioni tattiche che lo hanno visto protagonista inerme, Fabian sia spesso vittima dell'”umore” della partita, se non anche del contesto. È capitato che brillasse in contingenze tattiche discutibili, così come si è eventualmente reso anonimo pur assecondando schieramenti a lui più consoni. Il fatto che Bakayoko, in poco meno di due partite, sembri già più a suo agio nello scacchiere azzurro, è senz’altro un segnale: e se fosse lui stesso a “non volere”?

Se c’è un modo per rendersi conto delle reali possibilità di Ruiz, è quello di svestirgli la casacca azzurra: in nazionale, tra colleghi decisamente più affermati a livello tecnico, lo spagnolo non si è mai trovato a disagio, anzi ha dimostrato di poter parlare la stessa lingua dei fuoriclasse. È spiazzante la differenza di prestazioni tra le chiamate in camiseta roja e – almeno in parte – quelle in maglia partenopea. Il giocatore ha tutto ciò che serve per risolvere le partite da solo, vantando qualità così lampanti che spesso ci riesce pur senza profondere il massimo impegno; ma al netto di questo, ormai è anche tempo di chiedersi quanto ci vorrà per assistere alla massima espressione delle sue capacità. Perché il Napoli non è la nazionale, non garantirà la stessa qualità d’interpreti, non può sempre delegare il palleggio di qualità a qualcun altro, non può attutire le responsabilità delle sue scelte in campo e, più in generale, non può permettergli allungare i tempi di gioco solo per pigrizia.

Non è giusto riferirsi a prestazioni scialbe per autorizzare gogne pubbliche, ma è importante che l’onere venga recepito da chi è oggetto della critica. Perché se l’ex Betis mostrerà volontà di imparare dalle sue performance sbagliate, avrà occasione di maturare e diventare imprescindibile; se invece vorrà lasciarsi scivolare tutto addosso – perché forse sa che Napoli non è la piazza della sua vita – è meglio che rifletta al più presto su ciò che vuole fare da grande, per scongiurare la zona grigia in cui rischia di incanalarsi.

Separarsi da un elemento del genere non è mai indolore, non garantisce certezze riguardo i successori e, soprattutto, non può mai considerarsi una soluzione “ideale”, per questo ogni tipo di decisione deve giungere dopo un confronto schietto tra tecnico e giocatore, prima ancora che con la società. Si spera che, insieme al resto della squadra, anche i componenti più “indecisi” come Fabian ritrovino consapevolezza in campo e in loro stessi, sconfessando ogni tipo di dubbio.

Ricordando che, spesso, in campo occorre più fame che nobiltà.

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Aspirante scrittore, ossessionato dal cinema, dal Napoli e dalla lettura. Precario emigrante in virtù dell’affitto da pagare.
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