C’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui il calcio italiano dettava legge ai quattro angoli della terra. Non solo le tre grandi “storiche” Juve, Milan e Inter, erano temute ovunque in campo europeo, incutevano rispetto anche il Verona di Bagnoli, il Napoli di Maradona, la Sampdoria di Vialli e Mancini guidata da Boskov, fino ad arrivare al Vicenza di Guidolin, che nel 1997 vinse la coppa Italia e che l’anno dopo arrivò in semifinale di Coppa delle Coppe. Il Vicenza e il 1998, è proprio da questo punto che parte la nostra storia.
Dal capoluogo veneto, al crepuscolo degli anni ’90, il pallone nostrano inizia a cambiare forma, favorito anche dagli effetti che ha da poco avuto sullo sport professionistico la famigerata “sentenza Bosman” (datata dicembre ‘95). Il club dello storico presidente Pieraldo Dalle Carbonare, a seguito di una controversa inchiesta per bancarotta di un’altra sua società, la Trevitex, passa prima nelle mani di Virgilio Marzot, poi un’asta giudiziaria consegna le azioni alla Stellican, una finanziaria inglese che fa capo alla multinazionale petrolifera Enic. Il Vicenza è la prima società sportiva italiana a passare per intero sotto il controllo di soggetti stranieri. E’ la fine del mecenatismo.
Di contro, è l’inizio di quello che gli inglesi chiamano lo sport business, perché se dalle nostre parti ancora oggi è di moda il paradigma secondo cui nessuno fa soldi col calcio e tutte le società sportive sono in perdita, è anche vero che ad altre latitudini il pallone è affare miliardario e c’è chi i soldi li fa, eccome. Dopo la fallimentare gestione della società biancorossa, terminata nel 2004 con il passaggio delle quote ad un gruppo di imprenditori locali che se n’è accollato i debiti, ai giorni nostri è la volta dei vari James Pallotta (Roma), Joey Saputo (Bologna) e dei cinesi che stanno per subentrare nei consigli di amministrazione di Inter e Milan.
Negli anni recenti, più volte gli addetti ai lavori hanno sostenuto che gli investimenti nel calcio tricolore, da parte di miliardari esteri, fossero dettati innanzitutto da motivazioni legate al turismo. Oltre alla Roma, infatti, grossa risonanza mediatica è stata dedicata anche alla cessione del fallito Venezia all’imprenditore italoamericano Joe Tacopina. Vero, ma in parte. E’ ovvio che il Colosseo e la Laguna siano luoghi conosciuti in tutto il mondo, ma alla base di tutto ci sono le potenzialità del business. C’entra il territorio, quindi, ma negli studi di fattibilità finiscono anche la sostenibilità di un investimento comunque corposo e la prospettiva di investire in assets patrimoniali, stadio su tutti.
La prossima serie A potrebbe così stabilire il record personale di quattro società in mani straniere (le due milanesi, il Bologna e la Roma). Nel resto d’Europa lo scenario è piuttosto variegato. Agli estremi ci sono l’Inghilterra, che ha iniziato già da tempo un massiccio processo di internazionalizzazione, e la Germania, che ha tutte le squadre gestite da tedeschi, essenzialmente perché gli imprenditori teutonici per primi hanno creduto nella bontà degli investimenti in strutture, basti guardare il livello tecnico raggiunto dalla Nazionale tedesca e da tutte le giovanili.
La Premier, caso unico nei cinque maggiori tornei dell’Unione, nel campionato appena terminato ha contato 11 squadre su 20 gestite da proprietari non britannici. Gli investitori di mezzo mondo hanno riversato ingenti capitali nelle casse delle solite note Manchester City e United, Liverpool, Arsenal e Chelsea, ma anche in club di medio livello come Bournemouth, Tottenham, West Ham, Sunderland, Everton, persino il Watford di Gino Pozzo, oltre ai neo campioni del Leicester di Claudio Ranieri. I motivi sono presto detti: investire in una franchigia di Premier è sinonimo di visibilità, perché storicamente è il campionato più seguito al mondo. Di conseguenza, i diritti televisivi sono pagati a peso d’oro: nel 2015/16 il campionato è stato “venduto” a 2,2 miliardi di Euro, contro i circa 980 milioni della nostra Serie A. Nondimeno, voci di bilancio come i ricavi da merchandising, stadio, musei ed eventi vari, oltremanica hanno una rilevanza decisamente superiore rispetto ad altri paesi.
In mezzo, con tre squadre a testa, ci sono la Ligue 1 francese e la Liga spagnola. Il torneo transalpino sul piano tecnico è decisamente mediocre, tant’è che il Paris Saint Germain gestito dalla Qatar Sport Investment ha praticamente fatto il vuoto negli ultimi anni. Per un periodo si è intravista la possibilità di competere alla pari da parte del Monaco, il cui presidente è l’oligarca russo Dmitry Rybolovlev, e dell’Olympique Marsiglia, da qualche tempo in mano a Margarita Bogdanova Louis-Dreyfus, anch’essa russa, vedova di un magnate operante nel trading in materie prime. Solo che, mentre nel Principato il plenipotenziario ha ridimensionato le ambizioni già da un po’, nel caso dei marsigliesi la società è stata addirittura messa in vendita.
Nella Liga spagnola, infine, è noto che l’azionariato popolare la faccia da padrone. E’ già di per sé difficile trovare proprietà stabili, perché la regola delle quote in mano ai tifosi impone di votare un presidente ogni quattro anni. Lo è ancor di più se l’oggetto della ricerca sono capitali non iberici. Qualche anno fa, uno dei tanti componenti della famiglia Al Thani (parente dei presidenti di City e PSG) provò con il Malaga ad intaccare l’egemonia di Real Madrid e Barcellona, ma dopo un inizio incoraggiante il sogno s’infranse. Gli altri due esempi sono rappresentati dall’immancabile famiglia Pozzo, che con alterne fortune investe nel Granada, e da Peter Lim, imprenditore con base a Singapore, proprietario del Valencia. Non si può parlare di proprietà, perché sono casi di partecipazioni più o meno rilevanti, per i cinesi Chen Yasheng, azionista di riferimento dell’Espanyol, e Wang Jianlin, che detiene il 20% nell’Atletico Madrid.
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