Se il biennio targato Benitez ha spaccato sia critica che tifoseria, Maurizio Sarri sembra aver ricomposto questa frattura e messo tutti d’accordo. È il più bel Napoli da trent’anni a questa parte. Solo una Juventus in formato caterpillar ne ha tarpato le ambizioni di scudetto.
Beninteso che è forte la convinzione che centrare il secondo posto è un grande traguardo, cosa manca al Napoli per un trionfo che la tifoseria attende da più di un quarto di secolo? Ciascuno ha la sua legittima teoria e ognuna di esse può essere vera e falsa: un mercato importante, strutture, scugnizzeria, abitudine alla vittoria, ambiente umorale, potere politico e mediatico, e magari anche la penombra.
Un aspetto però ha messo d’accordo gli ultimi tre tecnici del Napoli: il fatturato. Da quando il Napoli è tornato competitivo ad alti livelli in Italia, ogni allenatore, prima o poi, ha toccato questo tasto. Rispolverando sul versante interno l’evergreen del “caccia ‘i sord!” nei confronti del Presidente, mentre su quell’esterno si poneva l’accento su come dichiarazioni di questo tipo fossero nient’altro che alibi per giustificare traguardi mancati. In realtà, sono semplici strategie per ridurre la pressione di tifoseria ed addetti ai lavori, per evitare di “alzare l’asticella”, come direbbe Mazzarri. Lo facevano anche Conte riguardo le prospettive europee della sua Juventus o, ancor più recentemente, Mourinho in relazione agli investimenti dei magnati di Manchester. Sol che a Napoli, una simile strategia si associa bene alla stucchevole oleografia del piagnisteo e del vittimismo.
Chi scrive considera che gli obiettivi di una qualsiasi azienda siano commisurati alla propria forza economica. E il telecalcio contemporaneo non può fare eccezione. Pertanto, chi fattura di più, al netto delle necessarie contestualizzazioni, ha maggiori chance di vittoria.
Ma il pallone è rotondo -dice un vecchio adagio- e può capitare che il “povero” batta il ricco, per dirla con romantica retorica. In realtà, in Italia, negli ultimi cinquant’anni, questo è accaduto rarissimamente. L’ultima volta, venticinque anni fa’, con la Sampdoria di Boskov, Mancini e Vialli. Erano gli albori degli anni ’90, gli stadi erano pieni e non si parlava né di bacini d’utenza, né tantomeno di magnati e mercati (medio-)orientali. Da allora, un’egemonia fatta di strisce biancorossonerazzurre, con la parentesi romana del biennio giubiloso.
In Europa è successo qualcosa di diverso. Quando oggi si parla di fatturato, la prima obiezione che viene mossa è “Eh, ma il Leicester”. Quello dei Foxes è solo l’ultimo esempio di una piccola ma significativa schiera di sconfessione dei fatturati sul campo. L’Atletico Madrid, il Porto di Mourinho in Champions League e -va detto- anche la Juventus di Allegri, lo scorso anno in Europa. Volendo allargare il discorso alle Nazionali, si possono aggiungere gli eccellenti risultati raggiunti dall’Uruguay di Oscar Tabarez.
Sia ben chiaro che non stiamo parlando di episodi come quelli del Verona di Osvaldo Bagnoli perché, per motivi diversi fra loro, sono tutte società con introiti importanti, ancorchè di gran lunga inferiori a quelle dei propri competitor locali o internazionali.
Ciò che accomuna queste realtà è il tipo di gioco. Si tratta di squadre arcigne, compatte e che concedono pochissimo allo spettacolo. Il Napoli è molto più divertente del Leicester e anche dell’Atletico di Simeone, le cui individualità sono sicuramente superiori a quelle della squadra guidata da Claudio Ranieri.
Atletico e Leicester, in particolare, badano prima di tutto a distruggere il gioco, speculando sull’errore dell’avversario. Il Napoli di Sarri è schiavo della prestazione, risultando così incapace di essere brutto e vincente. In particolare, contro squadre di pari livello o superiore, sembra risultare vincente l’approccio sparagnino dei vari Ranieri, Simeone, Mourinho, Tabarez. Il vecchio calcio all’italiana insomma. Non a caso, questi tecnici provengono o sono prima o poi tutti transitati in Italia.
Sarri invece, benchè ha conferito al Napoli un equilibrio maggiore rispetto al suo predecessore, non arretra di un millimetro rispetto all’idea di pressare sempre alto e di aggredire l’avversario nella sua metà campo. Un atteggiamento che evidentemente rende contro squadre di qualità inferiore, ma che paga dazio al cospetto di compagini rispetto a cui il Napoli non è manifestamente superiore. È accaduto a Torino, a Roma, in Europa League col Villareal ed anche nel match di andata contro l’Inter, dove i nerazzurri sono andati vicinissimi al pareggio, nonostante avessero subito gli uomini Sarri per tre quarti di partita.
Sia chiaro che Sarri è un grande allenatore. Ma, almeno per il momento, ancora incompleto. In questo momento della sua maturazione professionale, l’allenatore toscano ha bisogno che la qualità della propria squadra sia superiore a quella dei propri avversari per vincere. Probabilmente, alla guida della Juventus avrebbe portato a casa il titolo come Allegri, ma con un calcio decisamente più spumeggiante. Tuttavia, altrettanto verosimilmente, si può dire che difficilmente porterebbe l’Atletico Madrid a giocarsela alla pari con Barcellona, Real Madrid e Bayern Monaco, mettendole sotto, di tanto in tanto.
Va da se’ che il cosiddetto gioco all’italiana non è la pozione magica per dare uno schiaffo ai fatturati. Se la Juventus spende zero per gli acquisti di Pirlo, Tevez e Pogba e pochi spiccioli per Barzagli, il fatturato non c’entra. Ma, in relazione ad ambiti strettamente di campo, Davide non ha battuto Golìa, cercando di fare il Golìa.
Perché in fondo, diciamocela tutta, se la classifica ha legittimato i sogni tricolore del Napoli per così tanto tempo, è solo per lo scotto che la Juventus ha pagato inizialmente per il ringiovanimento del suo organico.
E questo è un caposaldo da tener bene a mente. Il punto di partenza per la prossima stagione -secondo o terzo posto che sia- non è il distacco finale di quest’anno dalla vetta, ma i punti che la Juventus ha recuperato al Napoli, dal momento in cui ha ritrovato la quadratura attorno a nuovi protagonisti, dopo l’addio di tre pezzi da novanta, come Pirlo, Vidal e Tevez.
Per cui, è ovvio che il problema del Napoli non è Sarri, sarebbe paradossale sostenerlo. Il problema è porre l’asticella al massimo livello con la differenza attuale di potenziale economico ed un allenatore inadeguato a vincere, partendo da un gap così importante.