“C” come Calcio, “C” come Cucina. L’iniziale come “minimo comun denominatore ” tra due mondi, a mo’ di volano tra due universi distanti e al tempo stesso vicini.
Si perché nel calcio come in cucina l’obiettivo è vincere. Prevalere sul campo, in fondo, è un po’ come eccellere in cucina tra i fornelli. Si tratta pur sempre di trovare gli ingredienti giusti, di essere in grado poi di miscelarli e combinarli con le giuste dosi e quantità, per sfornare un prodotto finale succulento e “vincente”.
Se il Napoli fosse una pietanza sarebbe sicuramente un piatto di fattura semplice ma rinomato, di estrazione popolare e dai sapori antichi ma riveduto e corretto in chiave “gourmet”, roba per palati fini, insomma, non semplice da trovare nei menu e sulle tavole di tutto il mondo.
Il club di Aurelio De Laurentiis è reduce da anni di crescita costante, fatta di risultati prodotti a getto continuo, da ripartire tra campo ed uffici: una programmazione in “fieri”, un work in progress come ama ripetere il presidente. Partiamo dai dati acquisiti, inconfutabili, perché ci piace elevarci al di sopra delle opinioni e delle farneticazioni di natura pseudo-ideologica. Le eterne diatribe tra filo-aureliani e papponisti non ci piacciono, perché proliferano laddove non batte il sole, lontano dalla trasparenza e dalla luce del dato.
Preferiamo l’approccio storico ed a quello ci atteniamo per far si che la nostra analisi accolga in sé i crismi dell’obiettività. Il club azzurro ha sdoganato la via dell’attenta gestione dei bilanci, abbinandola alla crescita sportiva della squadra. Un “piccolo Atletico” come modo di fare calcio e impresa, intesi come approccio soft al calciomercato, focalizzati sul lavoro duro tra campo e scrivania e sulla crescita dei talenti da scoprire e svezzare.
I risultati, dicevamo. Sette qualificazioni nel calcio continentale e, parallelamente, sette bilanci consecutivi chiusi in attivo: roba da stropicciarsi gli occhi e da far invidia a molti club storicamente più grandi del Napoli (basta guardare le alterne “sfortune” di Inter e Milan).
Terzo. Quinto. Secondo. Terzo. Quinto. Secondo. Non è uno scioglilingua ma la curiosa e perfetta sequenza dei piazzamenti azzurri nell’ultimo sestennio. Le due terzine precise ed identiche ad accertare una verità: il Napoli è ormai stabilmente nel gotha del calcio italiano. Due secondi posti, due terzi posti, due quinti posti : tre qualificazioni dirette in Champions League, una ai preliminari, due qualificazioni in Europa League.
A questi piazzamenti nelle ultime quattro stagioni vanno aggiunti ben tre titoli che il club è riuscito a conservare nel caveau di Castelvolturno: due Coppe Italia ed una Supercoppa Italiana, per alcuni “coppette” ma pur sempre titoli da aggiungere ad un palmarès scarno e storicamente avaro di trofei.
Lo scorso anno la società di De Laurentiis ha chiuso per la prima volta dopo anni in lieve passivo (-13 milioni nella gestione 2014/15) , peraltro dovuto al biennio Benitez che ha portato si titoli e record da destinare agli almanacchi, ma ha pur sempre privato il Napoli della più alta ribalta continentale, con conseguenti perdite economiche.
Il fatturato di un sodalizio come quello partenopeo (non supportato da gruppi multinazionali o munifici sceicchi) si nutre delle fortune della squadra, attinge dai risultati del campo. Se il Napoli, quindi, riesce a ritagliarsi un varco per la principale competizione continentale cambia anche lo scenario finanziario, tra incassi Uefa, contratti commerciali e diritti televisivi.
La strada maestra, per il club partenopeo, sarebbe quella di trovare la qualificazione Champions per tre o quattro stagioni senza interruzioni. E’ questo l’unico modo per moltiplicare il fatturato del Napoli e potergli consentire di continuare ad investire.
Ma come arrivare ad un grado di competitività tale da non farsi sfuggire il treno Champions ogni anno? E’ questa la domanda che dovremmo porci per tentare un’analisi verosimile. Per centrare quasi sempre la Champions il Napoli dovrebbe avere ai nastri di partenza una squadra “da scudetto”, sui livelli di Juventus e Roma, per intenderci.
Lottare ogni anno per lo scudetto significherebbe, nella peggiore delle ipotesi, piazzarsi secondi o terzi. E qui risiede il focus: per diventare “da scudetto” cosa dovrebbe fare il club di De Laurentiis?
A nostro avviso è inutile inseguire chimere di mercato oppure industriarsi in dialettiche più utili alle ribalte televisive che affini alla realtà dei fatti. La politica del Napoli non è mai cambiata e mai cambierà, almeno fin quando al timone ci sarà un imprenditore come Aurelio De Laurentiis, il cui dogma d’impresa è “investire quel che si ricava”, non un euro in più.
Restiamo, dunque, ancorati ai fatti e guardiamo al concreto. Se uno Chef non dispone del tartufo di Alba o dei porcini della Sila non può pensare di preparare un piatto di pappardelle ai funghi e tartufo. A volte, anche una cacio e pepe ben preparata può venire assai buona e rubare il palato ai commensali e del resto uno Chef capace è in grado di realizzare pietanze prelibate anche con ingredienti non di primissima qualità.
Nel calcio come nell’impresa in genere vige una regola: per avere standard di rendimento performanti occorre che tutti i reparti di un’azienda lavorino all’unisono, con livelli di qualità che non scendano al di sotto della media. In un club calcistico questo equivale a portare la rosa su livelli di qualità medio-alti, dotando la panchina di alternative valide a rimpiazzare i titolari senza far scendere troppo il livello di qualità media dell’undici titolare.
Il tutto si riduce in un aspetto fondamentale: dotarsi di quattro o cinque elementi che possano ruotare con quelli che già sono in squadra e non far rimpiangere il loro mancato impiego.
Gli ingredienti che consentano l’ultimo e definitivo salto di qualità del Napoli sono essenzialmente due:
– il mantenimento dell’attuale rosa, passando attraverso la revisione di alcuni contratti che porterà comunque ad un innalzamento del monte ingaggi complessivo (parliamo di Koulibaly, Ghoulam, Mertens, Callejon, Insigne, Hamsik, Higuain)
– L’innesto di 4/5 elementi che vadano ad irrorare la squadra nelle cosidette “seconde linee” che nel caso specifico dovranno avere più le fattezze dei co-titolari che delle riserve alla El Kaddouri o David Lopez.
Per lottare per lo scudetto e ben figurare in Champions occorrerebbe dotarsi di una rosa di 18 titolari più 3 giovani ed un terzo portiere. Oltre agli 11 titolari che Sarri ha lanciato in grande stile nell’ultimo campionato, bisognerebbe aggiungere ai Tonelli e ai Mertens, calciatori del calibro di Herrera, Sportiello, Zielinski, Vrsaljko et similia. In questo modo l’alternanza di due o tre pedine tra un impegno e l’altro non diverrebbe traumatica, non disperderebbe la forza d’urto di una squadra che ripartirà da certezze robuste e realtà consolidate sul campo, lungo un’intera stagione.
Lo Chef Sarri dovrà, poi, esser in grado di amalgamare gli ingredienti con sapienza ed equilibrio, per creare il mix giusto senza concedersi particolari stravaganze e correre il rischio di “coprire” i sapori (un po’ come è successo quest’anno con Valdifiori, Maggio e Gabbiadini) , ma con maestria e sensibilità, con il tatto e la lungimiranza di un Demiurgo che plasmi la sua creatura a poco a poco e con velleità di vittoria.