Le nuove frontiere del calcio impongono alle società rigide regole gestionali ed un occhio attento ai bilanci. I parametri stringenti del FFP (Financial Fair Play), poi, diventano paletti imprescindibili nel lento ma costante processo di “aziendalizzazione” delle società calcistiche.
Ma facciamo prima un passo indietro e torniamo al momento in cui le società di calcio avvertono per la prima volta l’esigenza di dotarsi di strutture aziendali vere e proprie, nel tentativo di affrancarsi dalle gestioni patriarcali ed un tantino “creative” che avevano trainato con difficoltà il calcio nelle epoche precedenti.
Torniamo al 1996 e precisamente alla legge 586/96 che riconosce ed introduce la cittadinanza per le società di calcio italiane nell’alveo delle società di capitali aprendo le porte dell’ingresso in Borsa. In Europa il primo club che si era affacciato sul mercato mobiliare era stato il Totthenam nell’ormai lontano 1983 e seguendo il solco tracciato dagli Spurs altri club inglesi intrapresero la medesima strada. Il Rapporto Taylor del 1990 che analizzava lo stato di salute del calcio britannico aveva imposto un “giro di vite” essenziale per la rifondazione di un mondo che era stato martorizzato dal fenomeno “hooligans” e che aveva vissuto il disastro di Hillsborough (1989). Il governo inglese sotto l’egida della Thatcher aveva imposto restyling dalle fondamenta del calcio per tentare di instaurare un rapporto più “commerciale” con i propri consumatori, ovvero i tifosi. E’ lì lo snodo epocale, è nelle pieghe di questo passaggio che cambia il rapporto tra i club e coloro che ne divengono veri e propri “utenti”, il calcio diviene “Impresa”.
Torniamo ai giorni nostri. Il costante ed inarrestabile sviluppo dei club calcistici inglesi ha permeato il tessuto connettivo dell’intero movimento calcistico europeo. Sull’onda del nuovo modo di intendere e fare calcio, di questo nuovo orizzonte calcistico, tutti i maggiori campionati europei hanno intrapreso un processo di “managerializzazione” delle proprie strutture aziendali.
Una società calcistica che possa definirsi moderna deve avere tutti i comparti che costituiscono l’impalcatura tradizionale di qualsiasi altra impresa che operi in qualsiasi altro settore dell’economia.
I processi di branding da parte dei club del calcio, la necessità di fidelizzare interi bacini di consumatori (i tifosi) e di conquistarne altri per estendere ed accrescere il valore commerciale del proprio marchio, hanno imposto di dotarsi di una struttura complessa, che vada incontro non solo alle esigenze di mera gestione amministrativa e finanziaria, ma anche alle sue possibilità di sviluppo economico e commerciale. Nasce il merchandising come attività collaterale, la vendita di vere e proprie linee di abbigliamento sportivo, l’ideazione di autentici profili del consumatore/tifoso da ingolosire e soddisfare con la più ampia e variegata offerta di prodotti/servizi, che vanno dall’abbigliamento, ai gadgets, all’intrattenimento, alla fidelizzazione vera e propria.
Il resto lo ha fatto la globalizzazione mondiale, il passaggio ad un economia globale ha sancito la rivoluzione copernicana del modo di fare impresa calcistica ed ha imposto nuove necessità che i club più importanti hanno dovuto intercettare, per non rischiare di rimanere tagliati fuori e per mantenere i propri livelli di competitività.
I fatturati delle società più importanti sono accresciuti a dismisura e con essi anche le attese sportive che vanno di pari passo con quelle economico-finanziarie. In un’epoca in cui si vagheggia di calcio su scala planetaria, laddove la Cina, dopo gli Stati Uniti e gli Emirati Arabi, è entrata prepotentemente sui mercati calcistici globali, nessun club al mondo può ormai permettersi di rimanere fuori da certe logiche.
Per rispondere alle esigenze di fatturato e per accrescere i propri livelli di competitività finanziaria e quindi sportiva i club inglesi (ormai da tempo, in Premier si pensa già a degli stadi 3.0 di nuovissima generazione), ma anche la maggior parte dei club europei hanno pensato di dotarsi di stadi di proprietà. Gli stadi oltre a diventare la vera e propria “casa” di questi club, con uffici della sede sociale e ampi locali per i vari settori dell’azienda, divengono delle vere e proprie “fortezze” inespugnabili con catini quasi sempre vicini al campo da gioco (secondo il cosiddetto modello inglese) che procurano un indiscutibile vantaggio competitivo in termini sportivi.
L’elemento più importante e redditizio di tali strutture, però, è che sono dei veri e propri poli di attrazione ed intrattenimento per i supporters o anche per i semplici curiosi che possono vivere la struttura nella sua interezza, sette giorni su sette e non più soltanto in occasione dell’evento domenicale legato al match.
Musei, aree di ristoro, centri commerciali, parchi tematici e Fans Shop diventano anelli di un business multimilionario che rappresenta una voce considerevole nelle entrate stagionali di una società calcistica, oltre che una credibile alternativa alla schiavitù dei diritti televisivi.
Una vera e propria isola del tesoro ancora inesplorata, però, almeno in Italia. Il modello dell’Emirates Stadium o dell’Allianz Arena rimane tuttora una chimera per i club italiani, alle prese con vincoli di natura burocratica ed iter legislativi spesso talmente farraginosi e pachidermici da scoraggiare anche le proprietà più intraprendenti e coraggiose. Dopo 5 anni di pendolo parlamentare, oggi c’è una disciplina che dovrebbe incentivare la costruzione e/o ammodernamento degli impianti sportivi (introdotta dalla legge di Stabilità del 2014 e già operativa), restringendo i tempi (14/15 mesi) per l’approvazione dei progetti ed attirando investimenti privati (con l’esclusione di nuove costruzioni edilizie nei piani compensativi).
Ad oggi, però, nessuna società italiana, fra quelle di prima fascia, è andata oltre la fase degli annunci e delle buone intenzioni. Quel che è certo è che serviranno imponenti risorse economiche, basti pensare che solo nel Regno Unito negli ultimi 20 anni sono stati investiti ben 3,3 miliardi di sterline.
I pionieri, come spesso accade, nell’ambito dei nostri confini nazionali sono stati gli Agnelli, coadiuvati peraltro da una vantaggiosa spalla offerta dall’amministrazione comunale di Torino, che ha elargito i terreni su cui sorge il nuovo impianto a costi irrisori per il club bianconero. Lo stadio sorge in una zona periferica, le Vallette: case popolari, il carcere, il mattatoio. Un’area da rivalutare e valorizzare, insomma.
La Juventus ha saputo edificare il nuovo sul vecchio. Infatti, lo Juventus Stadium sorge nel punto esatto in cui venne costruito il Delle Alpi in occasione dei mondiali di Italia 90. L’impianto, il primo privato tra i club professionistici italiani, ha generato un considerevole indotto, grazie all’area commerciale costruita proprio a ridosso dello stadio ed al museo del club, tra i più visitati di Italia.
Ma quanto è cambiata la vita della Juventus dopo aver realizzato il proprio impianto di proprietà? A prescindere dal valore sportivo dell’investimento, che ha fruttato guarda caso ben 5 scudetti consecutivi (praticamente da quando gioca allo Stadium la Juve è sempre Campione), il nuovo stadio ha rappresentato sin da subito una specie di “zecca” perchè al suo interno si coniano punti, vittorie e tanto denaro fresco. Già nel suo primo anno di esercizio, lo Stadium portò un incremento dei ricavi di 23,5 milioni di euro, con un risultato netto addizionale di 9. Una crescita esponenziale dipesa dall’aumento dei posti a sedere, del costo dei biglietti e abbonamenti ((skybox extralusso affittati per stagioni intere) e dell’offerta complessiva di servizi, visto che l’impianto ospita anche 8 ristoranti e 20 bar. Lo Juventus Stadium produce oggi una media di 45,8 milioni di ricavi annui, con un contributo al risultato di esercizio di circa 27 milioni di euro che cresce fino a 33,3 milioni di euro in ottica del fair play finanziario.
Senza voler addentrarsi in tecnicismi esaspetati, lo stadio genera circa 23 milioni di euro di cassa operativa (soldi freschi) che si tramutano in disponibilità cash. Non moltissimo se paragonato ai bilanci dei club inglesi e tedeschi, un abisso rispetto alle società italiane concorrenti che sono ferme al palo.
Se ci affacciamo sul palcoscenico europeo notiamo, però, che le distanze da colmare con i principali club del continente restano ancora importanti, una delle ragioni per cui l’Italia nell’ultimo decennio ha perso appeal, forza commerciale e competitività nei confronti delle più strutturate Inghilterra, Spagna e Germania.
Il Manchester United ricava dal match-day (botteghino più servizi legati all’evento partita) più di Juventus, Milan, Inter e Roma messe insieme: 127 milioni di euro contro poco più dei 100 raggranellati dai 4 club italiani, secondo uno studio dei fatturati Deloitte sui bilanci 2013 (non proprio attuale ma significativo). Il dato che emerge è un’istantanea fedele dei ritardi accumulati dalla Serie A rispetto alle migliori esperienze estere e di una situazione che per alcune stagioni condannerà il calcio nostrano a combattere battaglie di retroguardia.
Senza una vera rivoluzione strategica dei modelli di business, infatti, difficilmente la Serie A potrà ritrovare quella posizione di dominio che solo un paio di lustri fa le apparteneva.
Real Madrid e Barcellona sfiorano i 120 milioni di incasso nel matchday, l’Arsenal 108, il Bayern Monaco e il Chelsea 80 milioni, il triplo e il doppio rispettivamente della migliore delle italiane, la Juventus appunto. Ma grazie agli impianti di proprietà o comunque più attrezzati e decisamente più ospitali fanno meglio dei bianconeri anche Borussia Dortmund (60), PSG (53) e Liverpool (52). Incassi che doppiano le entrate di Milan, Inter e Roma, classifiche che nemmeno inseriscono club come Napoli e Fiorentina, lontane anni luce. Senza impianti moderni la Serie A “rinuncia” ad oltre 700 milioni di ricavi aggiuntivi (Fonte: Calcio & Business, Il Sole 240re).
Questa graduatoria dipende evidentemente anche dal combinato disposto tra costo dei tagliandi e tasso di riempimento degli impianti. Secondo le statistiche diffuso dal quotidiano britannico Guardian sono i tifosi spagnoli quelli che spendono di più in media in Europa. Un biglietto costa in media 29,91 euro con picchi che raggiungono i 147,7 euro. Costi più elevati persino dell’Italia che però non gode di una situazione semplice: 17,15 euro di media per un biglietto e 112,96 per i più cari, sebbene i biglietti più economici costino il 43 % in meno rispetto a quelli spagnoli. questi range sono più contenuti in Inghilterra e Germania: un biglietto per le parte di Premier League costa tra i 34,3 euro e i 70,23 euro; mentre in Bundesliga si toccano cifre da Serie B italiana: 12,52 euro per il biglietto più economico, 57,44 quelli più costosi in media. Quanto alla percentuale di riempimento degl istadi Inghilterra e Germania arrivano a riempire ormai il 90% circa dei posti disponibili per l’intera stagione. La Liga si piazza subito dietro con circa il 74% dei biglietti venduti, meglio di Francia (68%) e Italia (51%) (Fonte: Football Money League Deloitte 2014)
Il futuro del calcio italiano, in conclusione, è indissolubilmente legato alla realizzazione di moderni impianti di proprietà che attirino spettatori e clienti potenziali, che ormai scappano a gambe levate dai vetusti e fatiscenti stadi italiani. Sembrano averlo capito in tanti: l’Udinese ha già realizzato un bellissimo impianto, ristrutturando il vecchio Friuli. La Roma sta lentamente programmando il nuovo impianto a Tor di Valle, così come Inter e Milan con le nuove proprietà troveranno la spinta decisiva per la realizzazione dei nuovi stadi.
Tra i grandi club, il ruolo di “bella addormentata” spetta al Napoli, unica società italiana a non aver ancora ideato un piano preciso, fermo ed ingessato nelle titubanze di una proprietà ancora troppo giovane o forse non ancora pronta per un investimento di tale portata. Ma questo è un capitolo da affrontare ed approfondire a parte.
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