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Le proprietà straniere nel calcio – 3. Aspetti economici e finanziari

Nelle precedenti puntate della nostra inchiesta (clicca per leggere la prima e la seconda), abbiamo visto come le proprietà straniere forniscano un nuovo modello di business al calcio europeo. Dietro un pallone che rotola, sempre più spesso, ci sono investimenti da parte di multinazionali commerciali, finanziarie e addirittura governi di paesi ricchi. Investimenti che poi, si presume, debbano trasformarsi in ricavi.

Calcio, televisione e sponsor: un paradigma redditizio

La nuova idea di business, alla cui attuazione i capitali stranieri hanno contribuito in modo determinante, parte proprio dai ricavi, il punto intorno al quale deve ruotare tutto l’universo di una società commerciale. Pensiamo alla gestione di una società calcistica, anche importante, fino agli inizi degli anni ’90. Qualche contributo dalla federazione e uno sponsor sulla maglia: questi erano gli unici introiti di cui beneficiava. Gli ingaggi dei calciatori e il prezzo per rilevarli dagli altri club era finanziato in maggior misura dalle altre attività in cui era impegnato il presidente. Oltre all’eterna famiglia Agnelli, chi ha qualche anno in più ricorderà sicuramente Mantovani (petroliere), Pellegrini (ristoratore) e il “nostro” Ferlaino, che faceva il costruttore.

Negli anni ’90 esplode il business del calcio, trainato innanzitutto dalle pay-tv. I grandi colossi della comunicazione visiva, infatti, promettono alle varie federazioni di inondarle di soldi, mentre ai tifosi è data la possibilità, ovviamente a pagamento, di vedere tutte le partite della loro squadra del cuore comodamente seduti in poltrona. Il concetto è semplice, e sta alla base del commercio: maggiore visibilità equivale a maggiori introiti. Da questo momento in poi per le squadre di calcio (nel frattempo divenute società di capitali, in alcuni casi quotate in borsa), il punto focale del management sono i ricavi per i diritti televisivi, in inglese broadcasting revenues8210bd82df3de240524fa0ee6f3f0f15_XL

E’ la scintilla giusta: sport di massa unito a visibilità televisiva e sponsor, un concetto che già un decennio prima aveva attecchito negli Stati Uniti. Non a caso, infatti, i pionieri dell’investimento da oltrefrontiera provengono da realtà economiche che investono per lo più nel football americano e negli altri sport yankees. Un esempio su tutti: i newyorchesi Glazer, già proprietari della franchigia NFL dei Tampa Bay Buccaneers, sono stati tra i primi a sbarcare nel vecchio continente rilevando, anche qui non a caso, il Manchester United, una delle squadre più conosciute al mondo. Il brand del club di Old Trafford è diventato in pochi anni universale, tanto da strappare un contratto di sponsorizzazione con la Chevrolet, per il periodo 2014-2021, da 600 milioni di dollari, vale a dire circa 85 all’anno.

In Inghilterra l’unione fa la forza, in Italia non c’è nemmeno unione

Alla lunga, l’aumento delle risorse finanziarie nelle singole società ha generato una sorta di corrente di risacca, della quale beneficiano gli stessi media che investono nel calcio (tv, radio, oggi anche Internet), perché è ovvio che un prodotto migliore si vende più facilmente. L’impennata degli abbonamenti alla pay-tv, negli anni, ha consentito ai grandi network di disporre a loro volta di maggiori risorse, da investire in modo ancora più massiccio nel calcio. Anche in questo caso la Premier League fa scuola: la massima serie inglese può vantare oggi un indotto annuo di oltre 3 miliardi di sterline (la Serie A, per confronto, vale meno di un miliardo), con un incremento di valore di circa il 70% rispetto alla precedente contrattazione per la cessione dei diritti televisivi. stamford-bridge-grande

Più che da ogni altra cosa, gli investitori esteri sono attratti dall’Inghilterra perché lì hanno ben chiaro il concetto di sviluppo del business. Se, come ad esempio accade in Italia, la quasi totalità delle risorse è nelle mani di due o tre società al massimo e agli altri restano le briciole, quelle due o tre società vinceranno sempre tutto, ma col tempo saranno scarsamente competitive in ambito internazionale. In Inghilterra, fin da subito, tutti i club hanno cercato un’unità d’intenti tesa alla creazione di un marchio “globale”, Premier League appunto, riconosciuto in tutto il mondo e attrattivo sotto il punto di vista economico.

Ecco che, parallelamente agli investimenti stranieri, i governi succedutisi agli ordini della Regina hanno approvato diversi piani per favorire gli investimenti in infrastrutture da parte delle società. Uno stadio, un museo adiacente, uno spazio commerciale con il marchio della squadra, senza usare troppa fantasia, diventano non solo un serbatoio di risorse ingenti e immediate, ma anche un volano per ulteriori investimenti da parte di altri imprenditori. Non è una coincidenza se più della metà delle squadre di Premier League oggi è in mano ad imprenditori stranieri (e l’elenco si allunga se si considerano i club minori), mentre da noi siamo fermi a tre società (tra le quali il Bologna, squadra non proprio di prima fascia), senza prospettive immediate, né sotto il profilo delle partecipazioni azionarie, né dal punto di vista degli investimenti strutturali.

I fondi sovrani – Una diversa prospettiva di business e un comune denominatore

Discorso a parte, come detto nelle precedenti puntate, meritano i fondi sovrani, cioè quelle società veicolo create da governi di paesi ricchi (Asia mediorientale e Cina) allo scopo di investire surplus di ricchezza. xiIn questo caso non si può parlare di creazione di business e sfruttamento del marchio ai fini pubblicitari: i fondi sovrani investono dove prevedono di poter guadagnare. Essi sono presenti da sempre nei mercati finanziari, basti pensare che le più grandi banche d’affari al mondo (Morgan Stanley, Barclays, Credit Suisse, solo per citarne alcune) sono in qualche modo controllate da fondi sovrani.

Negli ultimi tempi però, come noto, la finanza mondiale sta vivendo una fase decisamente turbolenta. I mercati di tutto il mondo sono estremamente volatili a causa della ormai perenne crisi di liquidità, che ha portato effetti anche nell’economia reale. Per spiegare in estrema sintesi il funzionamento di tale infernale meccanismo partiamo dall’assunto che, a partire dal 2009, sono crollati i tassi di interesse, un evento che è coinciso con l’introduzione di misure contenitive da parte della Banca Centrale Europea, come il famoso Quantitative Easing, ossia la creazione di nuova moneta e sua immissione nel sistema economico, voluto da Mario Draghi. Gran parte dei soldi “nuovi” è finita nei mercati di borsa, circostanza questa che non ha fatto altro che ingrossare la bolla speculativa, rendendo le piazze affari territori sempre più scivolosi.

Di contro, l’economia reale è rimasta a secco: così si spiegano la chiusura di tantissime aziende, i milioni di posti di lavoro bruciati e, nondimeno, il crollo del mercato immobiliare un po’ in tutta Europa. A ciò si aggiunga, quale diretta conseguenza, che il livello dei prezzi delle materie prime (petrolio su tutti) è irrimediabilmente calato. Tuttavia, una volta toccato il fondo è più facile risalire: ecco perché proprio il mattone diventa uno strumento d’investimento più accessibile e con maggiori margini di guadagno. I manager dei fondi sovrani che in epoca recente hanno investito nel calcio, come quelli che oggi detengono il controllo del Manchester City e del Paris Saint Germain, non lo hanno fatto per questioni di visibilità, di sponsorizzazioni, o per intrattenere affari con i network televisivi.

Ciò che negli ultimi tempi ha fatto cambiare le strategie ai vari sceicchi ed emiri è pura e semplice diversificazione degli investimenti, localizzandoli dove è meno rischioso e, si spera, più redditizio. Il punto d’incontro con le grandi multinazionali, va detto, esiste ed è rappresentato proprio dall’aspetto patrimoniale. Parigi a parte, che resta una ricca enclave in un contesto calcistico mediocre, i capitali dei fondi sovrani destinati al pallone si sono diretti, manco a dirlo, in Inghilterra, per gli stessi motivi detti prima, vale a dire le politiche attuate dai governi per favorire lo sviluppo del mercato immobiliare.

Sotto tutti i punti di vista, l’Italia è indietro

Il ranking Uefa, nota dolente del calcio italiano di epoca recente, è solo la punta dell’iceberg di un sistema calcistico che, metaforicamente, è carente dalle sue fondamenta. La Juve fa storia a sé, perché è riuscita a costruirsi uno stadio da sola, sfruttando i solidi rapporti tra il management del Gruppo Fiat e il Comune di Torino. Dietro i bianconeri, il deserto. Risale ormai al 2014 l’introduzione di una norma che semplifica l’iter burocratico per l’accesso al Credito Sportivo, una banca specializzata in finanziamenti all’impiantistica sportiva. Ad oggi, il Napoli è una delle poche società che ha ricevuto fondi (circa 25 milioni, chiesti peraltro dal Comune, proprietario dell’impianto), i quali serviranno al massimo per l’agibilità e l’adeguamento del San Paolo alla normativa Uefa.

Chi, invece, ha parlato apertamente di costruire uno stadio da zero, è fermo alle intenzioni. La Roma ha fatto da traino nel corso della conferenza stampa tenuta a suo tempo dal portavoce del Governo Paolo D’Alessio, in occasione della presentazione della nuova norma, ma da allora l’unico passo decisivo verso la costruzione dello stadio è stato individuare in Tor di Valle l’area in cui esso dovrà sorgere. juventus-stadiumturin-juventus-stadium-41254-page-181-skyscrapercity-kmhkggckL’Udinese, per la sola ristrutturazione, ha avuto sì accesso ai fondi del Credito ma, come ha spiegato lo stesso D’Alessio, ha seguito la procedura prevista dalla vecchia legge, impiegando sei anni (dal 2008 al 2014) solo per la fase che va dallo studio di fattibilità all’inizio dei lavori, terminati dopo ulteriori 24 mesi. In Inghilterra, per dire, hanno impiegato tre anni per costruire il nuovo stadio di Wembley.

Tra le pretendenti ad un nuovo impianto o alla riqualificazione di quello vecchio figurano anche Milan e Inter, ricordando che San Siro ha appena ospitato la finale di Champions. Il Milan è in procinto di passare in mani cinesi, ma l’idea di un nuovo stadio nella zona del Portello (non lontano da San Siro) è tramontata a causa della solita burocrazia. L’Inter, che è già straniera da tempo, voleva ristrutturare il Meazza e tenerlo per sé, approfittando del fatto che i cugini rossoneri stavano per trasferirsi. Nulla di fatto.

La situazione è tanto più drammatica se si pensa alle altre squadre italiane, che si trovano a giocare in stadi brutti, vecchi, spesso non concepiti per il calcio e in alcuni casi ai limiti dell’agibilità. Il governo centrale, più che i comuni che ne sono proprietari, dovrebbe istituire un piano d’investimento strutturale e chiaro nei contenuti. Fino a quel momento, lo sviluppo economico di tutto il movimento e, di conseguenza, l’ingresso di ulteriori investitori stranieri in maniera meno circoscritta resta una chimera.

continua

 

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About author

Paolo Esposito è laureato in Economia Aziendale. Per lavoro si occupa di tax auditing con particolare attenzione al transfer pricing, al financial accounting e alle business restructuring. Tuttavia crede che di calcio sia meglio parlare in napoletano.
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