Lo scottante caso Higuian, se proprio così lo vogliamo definire, ha gettato l’ennesimo secchio di acqua bollente sul freddo e glaciale, ma anche presunto, mercantilismo di Aurelio De Laurentiis. Il Presidente del Calcio Napoli, accusato, ancora una volta, di “fare azienda” e di non avere intenzione alcuna di far vincere il club, si è dunque ritrovato nuovamente avvolto dall’ennesimo fitto polverone da dissipare.
Si chiama “papponismo”, lo definiscono così. Tradotto in termini non propriamente aulici, equivarrebbe alla volontà studiata a tavolino che vedrebbe la guida del Calcio Napoli come la mera ed unica volontà di sfruttarne le risorse per fini propri. Insomma, ne metterebbe in evidenza il disinteresse totale per una programmata vittoria sul campo della squadra e la singolare intenzione di generare plusvalenze per rimpinguare le tasche di famiglia.
In via embrionale, bisognerebbe affermare ci si trovi dinanzi ad una qualifica non propriamente edificante. Ma è davvero così?
Al di là di populistiche, enfatiche e solo parzialmente veritiere dichiarazioni presidenziali sfocianti in una napoletanità sanguigna, prerequisiti necessari per i tesserati azzurri attuali e futuri, il Calcio Napoli per Aurelio De Laurentiis “deve” essere una azienda.
Ma questa inclinazione non risiede (o non risiede totalmente) nella volontà unica di generare danaro destinato a se stesso. Aurelio De Laurentiis non è uno sceicco arabo, non è un magnate russo, non è un petroliere. Al cospetto di taluni inarrivabili mostri economici, il Presidente del Napoli è un umile imprenditore di un settore tra l’altro in crisi, quello cinematografico. Egli ha avuto il merito di rilevare una società di calcio fallita e risollevarne le sorti sportive dalle ceneri della serie C nella quale era sprofondata sino ai vertici della serie A. Questo è un dato inconfutabile ed insindacabile.
Ma i suddetti successi sportivi, non sono stati solo il frutto di una seria organizzazione e pianificazione economico-gestionale, ma anche conseguenza di una filosofia commerciale molto chiara che prevedeva (e prevede ancora) una lenta ma graduale crescita qualitativa della squadra ed il contestuale sacrificio dei calciatori destinatari di previste o inattese sopravvalutazioni del proprio valore di mercato. Sono stati proprio questi ultimi eventi, unitamente alle impronosticabili qualificazioni in Champions League, a proiettare il Napoli in una realtà sovralimentata rispetto alla propria dimensione.
Il Napoli, in altre parole, privato dei sacrifici tecnici più clamorosi (Lavezzi e Cavani su tutti), e degli introiti frutto dalla partecipazione ai gironi di Champions League, non avrebbe potuto accrescere il proprio valore economico e consequenzialmente quello tecnico. Il Napoli è sempre stata una società che si è auto-alimentata. E’ stata costretta a generare valore/denaro per reinvestire su se stesso. E forse dovremmo anche essere grati sia andata così, perché viceversa il Napoli non avrebbe saputo come fare per uscire dalla mediocrità.
Chi ritiene giusto De Laurentiis investa capitali di famiglia e li esponga all’incerto sviluppo cui li sottoporrebbe l’imprevedibile mondo del calcio, dice un’eresia. Chi sarebbe personalmente pronto ad intraprendere una strada del genere? Nessuno.
Ma la logica presidenziale, assolutamente condivisibile e non condannabile, sbatte contro l’inossidabile convinzione diffusasi tra i tifosi, con la stessa velocità con cui la peste ha generato morte nel ‘600: il Napoli DEVE vincere.
Ma perché il Napoli “deve” vincere?
Chi ha imposto questo destino? Cosa ha reso un desiderio legittimo in un inguaribile obbligo?
La storia ed il blasone della società? La grandezza e l’importanza della città? L’unicità del suo tifo?
Il blasone della società
Il Napoli è nato nel 1926 e da allora ha vinto appena 2 titoli nazionali (unitamente a 5 Coppe Italia, 2 Supercoppe Italiane, 1 Coppa Uefa, 1 Coppa delle Alpi e 1 Coppa di Lega Anglo-Italiana). Questo il bottino di 90 anni di storia, concordemente a susseguite retrocessioni nella serie cadetta negli anni ‘60. Non il nulla assoluto, ma nemmeno un palmares entusiasmante. Basti pensare al fatto che il Torino e il Bologna (7 titoli nazionali), il Genoa (9 titoli nazionali), addirittura la Pro Vercelli (7 titoli nazionali), senza voler considerare Roma, Fiorentina, Milan, Inter e la Juventus, hanno vinto nel corso della loro storia quasi il triplo dei titoli nazionali conseguiti dagli azzurri.
La grandezza della città
Qualcuno fa leva invece sulle dimensioni urbanistiche. Una grande metropoli merita una grande squadra – dicono in molti. Napoli è per densità della popolazione la terza città italiana, alle spalle di Roma e Milano. Ma non lontanissimo da quelle che seguono: Torino, Palermo e Genova. Roma, la capitale, la città italiana più rappresentativa e popolosa, non vince un titolo nazionale dalla stagione 2000/2001. La Lazio, espressione dell’altra metà del tifo capitolino, dalla stagione 1999/2000. Ma anche Milano non rispetta fedelmente la teoria del “se sei grande meriti di vincere”: per troppe volte le due espressioni calcistiche della “capitale del nord” hanno ceduto lo scettro ad una Juventus molto più organizzata e cinica.
L’immenso bacino di utenza
Ma Napoli è la città dei napoletani. Quella razza che si crogiuola nella sua unicità, che come una immensa famiglia presta un proprio rappresentante ad ogni angolo sperduto del mondo. 6 milioni di partenopei sparsi sull’intero continente, questa è la stima. Premesso che ci farebbe tanto piacere fare la conoscenza di chi ha avuto la pazienza di contarli tutti, un dato è certo: i napoletani presenti sul territorio mondiale sono davvero tanti, ed altrettanti sono i tifosi del Napoli, ancor più legati alla squadra che rappresenta per chi è emigrato le proprie nostalgiche origini. Ma l’obbligo di vincere equivarrebbe quindi ad una sorta di premio fedeltà?
Nulla di tutto ciò.
Il blasone societario è dunque esiguo, lo dice la sua mediocre storia. La città di Napoli è una metropoli grande ed importante nel panorama nazionale, ma il passato ci parla, e ci dice che le vittorie sul campo non sono mai andate a braccetto con l’urbanistica. Ed infine, il bacino d’utenza, commovente per quanto è grande, ma espressione “soltanto” di una enorme potenzialità.
Nessuno dei tre parametri ipotizzati incarna dunque la motivazione per cui il Napoli debba obbligatoriamente salire sul podio dei vincitori.
Questa pretesa non può e non deve essere il punto di arrivo di una frustrazione pluriennale. Una mente pensante non può esimersi dal visionare la storia, impietosa, imbarazzante, ma pur sempre veritiera.
Il Napoli non deve vincere. Il Napoli non può essere obbligato a farlo. Ha però l’obbligo di inorgoglire, divertire e profondere ogni sforzo affinchè esprima il massimo delle sue potenzialità. Sia sul terreno di gioco che nelle stanze dei bottoni.