All’alba del diciannovesimo secolo, la leggenda narra che alcuni inglesi iniziarono a scrivere le regole del calcio. Dopo anni di confronti, scontri, trattative e l’intervento di alcuni esperti provenienti niente meno che da Cambridge, nel 1863 le regole del football moderno furono belle che pronte. Ma la leggenda narra anche altro sul pallone che rotola, la cui origine potrebbe essere molto più antica, più esotica e, soprattutto, più macabra.
Siamo in estremo oriente, nel 1820. Il cronista inglese John Law, inviato per il Times, dalla Cina racconta di aver visto il gioco del calcio. La società segreta di estrazione buddista chiamata Il Loto Bianco ha aiutato la dinastia Ming ad avere la meglio sui rivali mongoli della setta Yuan. I cinesi li reprimono, li riducono alla clandestinità, ma i mongoli non mollano. Tra uno scontro e l’altro, si dilettano anche in un gioco che consiste nel dividersi in due squadre e contendersi una palla di chiffon, giocandola preferibilmente con i piedi. Peccato che Law fosse miope, ragion per cui scrisse che il campo era un’arena, i giocatori gladiatori, e la palla di tessuto la testa di un prigioniero cinese.
Questo aneddoto serve a far capire che non è poi tanto sbagliato o paradossale pensare al calcio in termini geopolitici: ci sono due fazioni contrapposte e lo stesso obiettivo da raggiungere. Vincere è questione di strategia, preparazione e impegno sul campo, un po’ come accade nei rapporti tra stati, cha vanno dalla diplomazia alla guerra. Gli stati, appunto. La geopolitica del calcio sta cambiando in modo rapido. Antiche realtà si consolidano, giovani governi si affacciano alla ribalta mondiale in cerca di consensi. Il motore di tutto, come ampiamente raccontato nelle puntate precedenti, è il denaro.
Gli Stati Uniti d’America, apripista nel business del calcio
Non è dato sapere il momento esatto in cui il calcio è diventato un business globale. Di sicuro c’è il luogo in cui tutto è iniziato: gli USA. E’ da lì che sono partiti due impulsi distinti. Il primo inizia a concepire l’intrattenimento (entertainment) come un’industria, con tanto di investimenti nei contenuti e nella forma. Il secondo è l’integrazione tra vari mondi che si sfiorano, poi diventano complementari, alla fine si fondono.
E’ il caso, ad esempio, dei Chicago Fire, squadra di MLS gestita dalla Andell Holdings, una società che investe nel mondo dell’intrattenimento a tutto tondo. Non solo calcio e cinema (la Andell ha prodotto diverse pellicole a Hollywood): il manager Andrew Hauptman ha messo le mani anche sulla Seagram, una casa di distillazione che a sua volta ha rapporti industriali con i colossi che gestiscono i marchi Pepsi, Pernod, Absolut Vodka e Guinness Beer, solo per citarne qualcuno. Una catena del valore che inizia e finisce in mano alle stesse persone e che coinvolge l’economia di diverse nazioni.
Oppure è il caso di Philip Anschutz, capo della società AEG, che investe prettamente nello sport entertainment. Sono sue le squadre dei Los Angeles Galaxy di calcio e i Lakers di basket, delle quali gestisce anche gli impianti, vale a dire lo StubHub Center e lo Staples Center, uno dei palazzetti più famosi al mondo.
Grazie alla spiccata propensione al capitalismo internazionale, da quasi vent’anni gli americani hanno messo le mani sulla Premier League inglese, elevandola dal mediocre livello di metà anni ’90 all’attuale élite dello sport mondiale. Basti leggere un dato in particolare. Nel campionato 2016/2017 entreranno in vigore i nuovi accordi riguardanti i diritti televisivi in Inghilterra. A meno di clamorosi effetti derivanti dalla Brexit, il campionato inglese introiterà una cifra superiore ai 3 miliardi di sterline, qualcosa come 4 miliardi di euro. Si punta dritti verso il record di 6,5 detenuto, manco a dirlo, dal football americano, che dalla sua però ha l’evento finale del Superbowl, uno show per portata mediatica paragonabile solo alla finale dei mondiali di calcio.
Lo sceicco del Qatar, il pioniere della nuova era
Se il business inteso dagli americani ha come fine il business stesso, all’altro capo del mondo c’è chi si porta dietro una nomea non proprio bella, ma lavora per convincere tutti del contrario. A gennaio del 2015, pochi giorni dopo l’attentato al giornale satirico Charlie Hebdo, il Paris Saint Germain veniva accolto a Bastia da uno striscione che lasciava poco spazio ai toni da sfottò tra tifosi: “Le Qatar finance le PSG… et le terrorisme”. Nessuna presa di posizione da parte del club parigino, presieduto da Nasser Ghanim Al-Khelaïfi, presidente della Qatar Investments Authority. Poi un altro colpo al cuore della capitale francese, l’attentato al Bataclan del 13 novembre scorso. In quel caso, i giocatori del PSG scesero in campo con una maglia celebrativa che recava la scritta “Je suis Paris”, mentre quelli del Barcellona, il cui main sponsor è lo stesso fondo qatariota, manifestavano la loro solidarietà attraverso una nota ufficiale.
La questione è semplice, snocciolata nelle sue diverse sfaccettature da giornalisti, analisti politici ed economisti: le risorse finanziarie che rendono competitive a livello internazionale squadre come il PSG e il Barcellona provengono dallo stesso fondo che finanzia il terrorismo internazionale. Se ne parla da tempo proprio in Francia, ed infatti i due attentati vengono visti come una sorta di ritorsione da parte dei jihadisti nei confronti della dialettica e della politica del presidente transalpino Hollande, ritenute troppo aggressive.
Ma il capo di stato francese non è il solo ad affrontare l’argomento. Il ministro dello sviluppo economico tedesco Gerd Muller ha più volte parlato di sostegno qatariota all’Isis in Siria e in Iraq. Gli ha fatto eco la segreteria di stato americana, ma poi tutti si sono accontentati delle formali smentite del governo di Doha. Nelle intenzioni dello sceicco, evidentemente, ci sono investimenti in attività ad alto impatto mediatico, che consentono al piccolo stato mediorientale di imporsi come presente e futuro partner commerciale per l’Europa. Se si guarda solo al calcio, Parigi rappresenta una scelta strategica perché in Francia è presente Al-Jazeera, autentico monopolista del pallone nei paesi arabi.
Il percorso di consolidamento del piccolo emirato avrebbe raggiunto il culmine nel 2022, anno nel quale avrebbe dovuto ospitare i mondiali. Tuttavia, un terremoto giudiziario ha colpito diversi dirigenti della FIFA, accusati di aver preso tangenti dallo sceicco Mohamed bin Hammam, già presidente della Federcalcio qatariota e radiato nel 2011 per motivi più o meno simili. In termini relativi non si parla di molti soldi, perché dai documenti reperiti dai giornalisti del Sunday Times e del Guardian, che hanno condotto l’inchiesta, risultano cifre vicine ai 5 milioni di dollari: quasi nulla rispetto ai circa 200 miliardi stanziati per l’organizzazione della massima competizione riservata alle nazionali.
Fatto sta che il presidente della FIFA Blatter e il suo delfino all’UEFA Platini si sono dati alla fuga. Nel frattempo, il processo giudiziario è iniziato con un’anomalia, perchè non tutti i documenti reperiti dai reporter inglesi sono stati inseriti per la discussione in fase dibattimentale. Il comitato etico della FIFA, quale atto dovuto, ha condotto un’indagine lampo sull’accaduto dalla quale non risulterebbero irregolarità, ma ad oggi pare che la vicenda sia tutt’altro che chiusa.
I soldi viaggiano verso l’oriente: arrivano i cinesi
Netflix, Amazon e campionato di calcio. Cos’hanno in comune tre marchi universali dell’intrattenimento? Di questi tempi, la parola che unisce i tre concetti è semplice, di quattro lettere: Cina. I magnati della Repubblica popolare stanno investendo miliardi di dollari al fine di creare il più grande mercato di intrattenimento di tutto il mondo.
L’inizio è tardivo rispetto alle realtà americana e araba analizzate prima, ma i capitali messi sul piatto rischiano di far impallidire anche yankees e sceicchi. Nel 2012, ad esempio, il gruppo Dalian Wanda ha sborsato 2,6 miliardi di dollari per accaparrarsi la catena di sale cinematografiche americane AMC Theatres. Un anno prima, lo stesso gruppo aveva iniziato a curare gli interessi commerciali della Super League, il massimo campionato cinese.
Ma Wang Jianlin, l’imprenditore a capo del gruppo Dalian Wanda, non si è certo fermato qui. Nel 2015 ha acquistato il 20% delle quote dell’Atletico Madrid per 45 milioni di Euro e, nello stesso anno, ha rilevato per una cifra superiore al miliardo di Euro la società Infront, adivsor nel comparto marketing e media della Lega Serie A. Una volta messe le mani sulle partite di casa nostra, Jianlin ha “esportato” il prodotto nella sua Cina, al punto che due grandi storiche del calcio italiano come Milan e Inter sono finite nel mirino di altri imprenditori cinesi, intenzionati a rilevarne le quote.
Il club nerazzurro è passato da poco nelle mani del gruppo Suning, il quale investe in modo massiccio nell’intrattenimento on line. Fa parte del gruppo, ad esempio, la piattaforma PPTV, che trasmette diversi eventi tra i quali le partite di calcio. Il proprietario di Suning, Zhang Jindong, ha investito qualcosa come 350 milioni di Euro nel suo gioiellino, ma non è il solo. La piattaforma concorrente Le Sport ha da tempo accordi con entrambe le società calcistiche milanesi per la trasmissione delle partite in diretta streaming su tutto il territorio cinese.
Il calcio servirà a realizzare il sogno del presidente della Repubblica Xi Jinping, cioè rendere la nazionale del suo paese finalmente competitiva a livello internazionale. Serve insegnare ai calciatori cinesi la cultura dei grandi campioni, quindi non bastano massicci investimenti nelle giovanili e l’insegnamento del calcio nelle scuole, ci vogliono campioni che giochino in Cina. Ecco spiegati gli acquisti a suon di milioni, negli ultimi anni, dei vari Lavezzi, Gervinho, Guarin e di Cannavaro e Lippi in qualità di allenatori. Tutti vincenti, tutti in qualche modo legati all’Italia. L’obiettivo malcelato del governo di Pechino, al pari del Qatar, è quello di poter ospitare entro il 2050 un campionato mondiale di calcio, magari avendo qualche chance di vittoria.
Conclusioni – l’Europa (e l’Italia) di nuovo al centro del mondo
Abbiamo visto come i capitali di mezzo mondo convergano sull’Europa calcistica. Il Vecchio continente sta tornando ad essere modello ed esempio per il resto del mondo sotto il punto di vista imprenditoriale, ma anche etico. Se, infatti, l’UEFA ha pagato con gli arresti lo scandalo legato all’assegnazione dei mondiali al Qatar ma poi ha eletto quale nuovo presidente Gianni Infantino nel segno della discontinuità, le federazioni americane non possono che fare la conta dei cocci rotti. La Concacaf (Canada, USA e Centroamerica) e il Conmebol (Sudamerica) sono stati investiti da altrettante inchieste giudiziarie e ad oggi ancora risultano tra gli organi che hanno subìto il maggior numero di arresti.
Sotto il punto di vista politico, l’Unione Europea ha recentemente concesso fondi per lo sviluppo di strutture calcistiche in paesi come Ungheria, Moldavia, Polonia e San Marino. Sul piano finanziario, nondimeno, le misure per la sostenibilità gestionale dei club, quel financial fair play promosso dallo stesso Platini quando era a capo dell’UEFA, hanno lanciato un messaggio chiaro agli imprenditori stranieri in procinto di investire da noi, ma anche a tutti gli altri: occhio ai conti, perché gli uomini passano, ma le società restano. Non è più concepibile che il miliardario di turno spolpi le casse della società e poi a pagarne le conseguenze debbano essere i tifosi, chiedere a Parma per conferma.
I tifosi del Napoli, a tal proposito, devono solo essere contenti perché De Laurentiis, sia pur con i limiti strutturali e il ridotto margine di crescita, gestisce una società sana. Di sicuro non parliamo di un indotto economico che può competere con i numeri prodotti dalle grandi d’Europa, ma di sicuro ci sono anche l’assenza di debiti con le banche e il fatto che i partenopei non rischiano nulla in termini di sanzioni UEFA. Gli azzurri, da questo punto di vista, sono gestiti con un modus che è perfettamente in linea con la politica comunitaria. Una politica che sta cambiando velocemente.
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