Dalle origini a Mino Raiola
Corre l’anno 1977, l’Italia riscrive la sua storia. Sul piano sociale, come un pentolone che bolliva dall’ormai lontana aria di contestazione sessantottina, nel ‘77 prende pubblicamente corpo la stagione dell’università di massa, capeggiata dai movimenti proletari che pretendono pari diritti rispetto ai ceti più abbienti. Politicamente stravincono i radicali di Marco Pannella, i quali tre anni prima avevano promosso e vinto il referendum sul divorzio, mentre si chiudono i rapporti tra la sinistra “ufficiale” e il proletariato stesso, che da quel momento si autoproclama sinistra extraparlamentare. L’onda lunga socio culturale genera fenomeni musicali seminali per le future generazioni, basti pensare al punk, alla new wave e ai nostri Vasco e Litfiba. Il tutto raccontato da una televisione che, a partire dal 1977, trasmette interamente a colori.
Ma il 1977 è importante anche per il calcio. Il 16 dicembre di quell’anno, Giancarlo Antognoni viene chiamato per mettere la sua firma su un pezzo di carta. Non un normale autografo, come ne fanno tanti i calciatori, quella firma deve essere apposta alla presenza di un notaio. Quel pezzo di carta ha un titolo ben preciso, procura speciale, e quell’uomo che presenzia dal notaio insieme ad Antognoni si chiama Antonio Caliendo. In quello studio notarile ha inizio la professione di procuratore sportivo. La carriera di Caliendo, vero decano tra i procuratori, sarà costellata di collaborazioni con campioni di fama mondiale: da Diaz a Passarella, da Schillaci a Trezeguet, passando per Roberto Baggio e Maicon. Nella finale dei Mondiali italiani del 1990, tra i ventidue di Argentina e Germania c’erano ben dodici calciatori assistiti da Caliendo.
Dal ’77 al ’97, dopo vent’anni l’Italia è il punto d’arrivo per qualsiasi calciatore al mondo. Non ci sono Premier League e Bundesliga che tengano, la Serie A è il campionato più ambito in assoluto. Proprio nel ’97, a Milano sbarca uno dei più grandi talenti di tutti i tempi: Luis Nazario da Lima, per tutti Ronaldo, proveniente dal Barcellona e diretto all’Inter, pagato dal presidente Moratti la cifra record di 48 miliardi di Lire. A metterlo sull’aereo è Giovanni Branchini, che nello stesso periodo riuscirà a piazzare anche Rui Costa e Seedorf al Milan. Se Caliendo è un corridore solitario, Branchini rappresenta l’evoluzione moderna del ruolo di procuratore, che si avvale di collaboratori esperti nelle più svariate materie: diritto del lavoro, contrattualistica, fino al marketing e alle sponsorizzazioni. Grazie a questa generazione di procuratori, i calciatori si trasformano da semplici atleti a vere e proprie aziende che camminano. Branchini si renderà famoso alle cronache perché negli anni porterà, tra i più famosi, Guardiola al Bayern Monaco, Toni Kroos al Real Madrid e Mario Mandzukic all’Atletico Madrid, dimostrando ottima familiarità con il movimento calcistico tedesco.
Un po’ più a nord della Germania, precisamente ad Haarlem, in Olanda, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 cresce un ragazzo nato a Nocera Inferiore ma trasferitosi nei Paesi Bassi insieme alla famiglia. Si chiama Carmine Raiola, detto Mino, e fa il cameriere nel ristorante aperto lì da suo padre. In un’intervista al Secolo XIX, Raiola ha raccontato che iniziò ad occuparsi di affari costituendo una società, la Intermezzo, che agiva nelle mediazioni tra gli imprenditori locali e quelli italiani. Al suo ristorante, nel frattempo, era cliente fisso il presidente dell’Haarlem, al quale Mino rinfacciava di non capire niente di calcio. Così una sera il presidente lo chiama in disparte e tra il serio e il faceto lo guarda negli occhi e gli dice: “perché non ci provi tu?”. E’ la svolta.
Una svolta che però passa dalla madre di tutti i problemi: per fare una buona campagna acquisti ci vogliono i soldi, ma in Olanda a quei tempi a parte l’Ajax nessuno ne aveva. Ed ecco l’intuizione, che può sembrare un paradosso ma in realtà è la chiave di volta. Dopo essersi proposto come capo del sindacato dei calciatori olandesi, il direttore sportivo Raiola inizia a trattare con i presidenti delle società. Per fare un esempio di come abbia fatto a costruire un impero, si pensi a Marciano Vink. Raiola racconta dell’interesse del Genoa, il cui presidente Spinelli arrivò ad offrire dieci miliardi di Lire. Lui rispose “Presidente, se vuole glielo do a due, però deve garantire a Vink uno stipendio maggiore di tutti i suoi compagni”. Detto, fatto: Vink va al Genoa e da lì tutti i migliori olandesi iniziano a viaggiare verso l’Italia accompagnati dal direttore sportivo dell’Haarlem, che però funge anche da agente. Il segreto, a detta di Raiola, è far risparmiare la società acquirente sul prezo del cartellino in cambio di uno stipendio più alto, facendo così l’interesse sia del presidente che del calciatore.
La società di Raiola, che oggi si chiama Maguire Tax & Accounting, piazza un crescendo che in breve tempo consentirà di mettere le mani su talenti come Dennis Bergkamp, Pavel Nedved, fino a Zlatan Ibrahimovic e Paul Pogba. La vera rivoluzione, tuttavia, Raiola e i suoi la compiono nell’intendere il lavoro di agente in un modo ancora diverso rispetto ai loro predecessori. Non si lavora più da battitori liberi, bensì a stretto contatto con le società, cercando sempre di più la strada delle collaborazioni durature e sostanziose. Ne sa qualcosa il Milan, che negli ultimi anni ha visto in Raiola una sorta di dirigente aggiunto.
L’impatto dei procuratori sul bilancio delle società
Mino Raiola ha istituito la figura dell’agente dei calciatori che lavora stabilmente per le società di calcio. Il concetto è semplice: un procuratore affermato e che ha grande credibilità, soddisfa le esigenze di mercato delle varie società attraverso i calciatori della sua scuderia, e se non ce li ha se li va a prendere da altri, tant’è che il cambio di procuratore da parte di un giocatore nel novanta per cento dei casi significa cessione imminente. Non è un caso, quindi, che nei bilanci delle varie società le voci di costo e di debito riguardanti le parcelle degli agenti siano andate man mano crescendo negli ultimi anni. Il Milan ne è esempio lampante:
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Secondo un’analisi svolta dal sito Calcio & Finanza, l’ultima campagna acquisti dei rossoneri è costata circa 90 milioni in termini di cartellini dei calciatori. Ma il dato davvero significativo è l’incremento, rispetto all’anno prima, dei debiti nei confronti degli agenti sportivi, pari a 18,5 milioni di Euro. Ancor più eloquente è il dato estratto dal bilancio dell’AS Roma, società quotata in Borsa, quindi soggetta a specifiche regole sulla trasparenza:
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Nell’ultimo bilancio approvato dagli amministratori del club capitolino, gli oneri che scaturiscono dai compensi per gli intermediari rappresentano oltre il 13% del totale costo storico per l’acquisizione dei calciatori. Da notare, in questo caso, che le pretese degli agenti non si abbassano se di mezzo c’è un ragazzo aggregato alle giovanili.
La riforma del 2015: chiunque può fare l’agente
Dagli anni ’70 ad oggi, come visto, sono cambiate tante cose nel rapporto tra società, calciatori e loro rappresentanti. Il presente è già il futuro. Nel 2015, la Fifa allora presieduta da Blatter ha dato inizio ad un processo di riforma della normativa riguardante il ruolo di procuratore sportivo. A dirla tutta, non dovrebbe essere più usata la parola procuratore, bensì agente. La priorità si chiama deregulation, in Italia recepita come liberalizzazione. Nella pratica i compiti dell’agente resteranno gli stessi, cioè mettere in contatto società e calciatori, sul piano legislativo verranno rimossi determinati paletti.
Si parte dai criteri di accesso alla professione. Per rappresentare i calciatori fino all’anno scorso erano necessari un diploma di scuola superiore, il casellario penale intatto e una licenza Fifa, conseguita a seguito di un corso di formazione e il sostenimento di un esame. Gli unici a poter accedere alla professione senza tesserino erano i fratelli del calciatore e gli avvocati abilitati. Con la nuova norma chiunque potrà svolgere l’attività di agente in modo professionale, sono sufficienti buona reputazione e assenza di conflitti d’interesse. Viene introdotto il livello massimo di provvigione percepibile, il 3%, ma contestualmente è stato abolito il divieto di doppio mandato: in pratica, lo stesso agente può contemporaneamente operare nell’interesse del calciatore e della società, ma in quel caso il pagamento sarà effettuato da una sola delle due controparti.
Se, da un lato, la nuova normativa garantisce lo snellimento delle procedure burocratiche riguardanti la compravendita dei cartellini, dall’altro la dequalificazione delle parti in causa, alla lunga, potrebbe portare a trattative caotiche, inserimento di personaggi discutibili, finanche truffe. Nella quotidianità, racconta l’agente Fifa Luca Vargiu nel suo libro Palle, calci e palloni (s)gonfiati, “tocca scontrarsi con un mondo competitivo, poco corretto, dribblare umori e malumori di giovani promesse (e non), agguerritissime famiglie, scaltri dirigenti e professionisti (quando va bene) pronti a tutto per portare a casa il risultato”. Inoltre, c’è da registrare che con la medesima riforma, la Fifa ha concesso la gestione dei calciatori anche alle persone giuridiche, sancendo ufficialmente l’apertura di questo mondo ai fondi d’investimento.
Le third party ownership: la nuova frontiera ai limiti della legalità
Quando a rappresentare un calciatore è una singola persona, in quanto amico, parente o semplice avvocato, il lavoro è svolto per tutelare il ragazzo che gioca a calcio e la società che lo acquista o ne detiene il cartellino. Quando lo stesso rapporto è curato da multinazionali della consulenza sportiva, il discorso cambia. Esistono società, per lo più dislocate in paradisi fiscali, che acquistano il cartellino dei calciatori, trasferendoli da una squadra all’altra spesso contro la loro volontà e speculando sull’aumento di valore del calciatore stesso. In cambio di buone prospettive di carriera, in poche parole, giovani promesse vengono sfruttate e i presidenti dei club non ricavano nulla dalla loro cessione.
Il fenomeno, denominato third party ownership (in sigla TPO), nasce negli anni ’90 dal basso. Alcune società di scouting, notando in giro per il mondo giovani estremamente interessanti, iniziarono ad acquistarne i cartellini, in cambio talvolta del pagamento dei debiti che gravavano sulle società di appartenenza. Parliamo soprattutto del Sudamerica, una zona del mondo tanto piena di talenti quanto povera sotto il profilo dell’imprenditoria sportiva. Tali agenzie si proponevano come promotrici di giovani talenti, ma davano anche vita a vere e proprie aste per i calciatori migliori, intascandosi l’intero prezzo del cartellino.
In un articolo pubblicato dalla redazione di Bergamo Post, viene stimato che ad oggi i fondi d’investimento sono i reali proprietari di circa 1.100 calciatori, per un valore complessivo di più di un miliardo di euro. Fra i Paesi maggiormente toccati, la Spagna (con l’8% di quote) il Portogallo (36%) e l’Olanda (3%). Ben più elevati i numeri in Sudamerica, dove il livello ha raggiunto il 90%.
Il caso più famoso e clamoroso di questo tipo di gestione riguarda Neymar, brasiliano del Santos approdato al Barcellona nel 2013. Fonti ufficiali riferirono di un esborso di 57 milioni di Euro, ma successivamente si diffuse la notizia che il Barcellona aveva speso una cifra vicina ai 100 milioni. Ciò in quanto nella prima stima non era stata considerata la “parcella” della società proprietaria del cartellino del giovane brasiliano, che non era il Santos, bensì il fondo Dis, all’epoca proprietario del 40%. Peraltro, i manager del fondo costrinsero Neymar a trasferirsi in Europa un anno prima del previsto, poiché il ragazzo avrebbe voluto partire solo dopo aver disputato il Mondiale in casa.
Ma in giro c’è anche di peggio. Oggi è sulla bocca di tutti l’Atletico Madrid del “Cholo” Simeone, una squadra che negli ultimi anni è stata in grado di scalfire il duopolio iberico rappresentato da Barcellona e Real Madrid, oltre a raggiungere per ben due volte la finale di Champions. Ancora nel 2011, tuttavia, i Colchoneros erano indebitati col fisco per 215 milioni e rischiavano seriamente il fallimento. Una società in crisi vende tutto ciò che ha di più caro, ed è esattamente ciò che fecero gli amministratori dell’epoca. Fu così che andarono via De Gea, Aguero, Elias e Forlan, per un totale di 85 milioni di euro, con i quali l’Atletico saldò parzialmente i suoi debiti fiscali. Ciò che non torna è che nel giro di poche settimane furono ufficializzati i colpi Falcao e Arda Turan, che insieme alle altre operazioni totalizzarono un monte spesa di 91 milioni di euro. Com’è possibile?
E’ possibile se alle spalle c’è la Doyen Sports Investments, un fondo d’investimento privato che finanziò le spese di quell’estate. Grazie agli innesti di quella sessione di calciomercato, l’Atletico vinse l’Europa League, trascinato dai gol di Falcao. Ma come insegna Archimede, ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Non potendo restituire le somme del finanziamento, la società madrilena ha dovuto cedere a Doyen i diritti di molti suoi calciatori, tra cui lo stesso Falcao. Nell’estate del 2013, quando la punta fu ceduta al Monaco, quasi tutti i 60 milioni pagati per rilevarne il cartellino finirono nelle casse del fondo, lasciando solo gli spiccioli di mancia al presidente del club.
In Inghilterra, più o meno contemporaneamente, accaddero vicende simili al West Ham, con gli acquisti di Mascherano e Tevez, al Southampton e al Reading. Proprio quest’ultima società, passata in poco tempo dalla Premier ai bassifondi della Championship, è stata messa in vendita dai proprietari, incapaci di fare fronte ai debiti. Discorsi analoghi potrebbero essere fatti per Porto, Benfica, Valencia e Siviglia. Addirittura, in alcuni casi (come appunto il West Ham) le società sono costrette a “pignorare” i futuri introiti dei diritti televisivi. Negli ultimi anni, la Football Association ha imposto norme sempre più severe, come il divieto di effettuare compravendite tramite TPO, ma serve a poco in quanto i fondi d’investimento come la Doyen continuano ad operare pressoché indisturbati.
Lo scenario prefigurato nei prossimi anni è quanto mai preoccupante. Siamo al terzo stadio dell’evoluzione dei procuratori sportivi, ormai divenuti agenti: i calciatori regrediscono da aziende produttive di reddito a semplice merce di scambio nelle mani di traders professionisti, che dispongono delle fortune e delle sfortune di un ragazzo poco più che ventenne, alla stregua di un Michael Douglas nei panni di Gordon Gekko nel film Wall Street. Le federazioni internazionali, Uefa ma anche Fifa, sono alla disperata ricerca di un efficace sistema di controlli, da attuarsi ad esempio con la revisione delle regole del financial fair play. Per il momento però, di risultati ancora non se ne sono visti.
La situazione italiana e l’anomalia Napoli
E l’Italia? Il Belpaese, bontà nostra, è sempre tardivo nel recepire le novità provenienti da oltrefrontiera, che non è sempre un difetto. Le TPO dalle nostre parti praticamente non hanno ancora attecchito. Ma non bisogna abbassare troppo la guardia, né sottovalutare il problema, perché se è vero che alcune squadre si stanno seriamente muovendo per dotarsi di strutture che generino ricavi, come dimostrano gli stadi costruiti o gestiti in proprio da Juventus, Udinese e Sassuolo, la generalità dei casi parla di molte società sull’orlo della bancarotta, i cui presidenti potrebbero tentare la carta della disperazione da un momento all’altro.
Un’anomalia nel panorama calcistico europeo, forse mondiale, è rappresentata dal Napoli di De Laurentiis. Ormai tutti hanno imparato a memoria la cantilena recitata ogni qual volta il presidente azzurro deve concludere una trattativa per comprare un giocatore: i contratti sono complicati, la gestione dei diritti d’immagine deve per forza restare in mano alla società, gli ingaggi non possono mai superare i parametri del fair play finanziario, e così via. La domanda è: De Laurentiis è ostinato o in un certo senso ha ragione?
In un’intervista rilasciata tempo fa a Radio Marte, da buon imprenditore cinematografico, il patron partenopeo spiegò il funzionamento dei suoi contratti in modo chiaro e preciso: “Se vado a fare una negoziazione con Brad Pitt o Johnny Depp, io mi siedo con 10 avvocati e di fronte ne trovo altri 10 della controparte. Si discute in maniera normale. C’è un contratto in cui lui mi dà le sue prestazioni di attore e un altro in cui mi cede il risultato della sua opera recitativa in modo che possa usare le sue immagini per il film. La stessa cosa io applico nel calcio”.
Ed ancora: “Non si può depositare un contratto con un prestampato, i miei hanno una specificità. Il mio obiettivo è non far fallire mai più il Napoli, né farlo retrocedere. Bisogna avere la coerenza e la cultura che certe situazioni non accadano. Le multinazionali come Nike e Adidas mettono sotto contratto i calciatori, ma come si permettono? Vi risulta che abbiano fatto un accordo con tutti i presidenti di serie A? Vi risulta che vogliano aiutarci negli stadi? Anche qui c’è una cultura sbagliata, quando un club fa un contratto anche se non fosse interessato a gestire l’immagine, dovrebbe dire al calciatore che è autorizzato a sfruttarla per il tempo in cui sei in un determinato club. Il signor pincopallo ha un contratto con Nike e va benissimo, ma ci deve essere una clausola che prevede l’annullamento quando c’è il trasferimento ad un’altra società che gestisce diversamente i diritti d’immagine”.
Il discorso, nemmeno tanto velato, di De Laurentiis è quello di intrattenere con lo sponsor tecnico un rapporto “total body”, cioè dotare i calciatori di tutta l’attrezzatura necessaria per allenarsi e giocare, ovviamente in cambio di maggiori introiti da parte del fornitore: “Io sto progettando di fare le scarpe del Napoli e voglio invadere il mercato, qualcuno non può arrivare a casa mia e dire che non posso farlo. Devo pensare ad aumentare il fatturato per essere competitivo. Devo pensare che Nike e Adidas sono pagati da altri 4-5 club per rompere le scatole a noi e non farci crescere”. E’ altrettanto ovvio che il progetto di De Laurentiis naufraga nel momento in cui inizia ad accettare il fatto che i suoi giocatori portino in dote sponsorizzazioni personali.
Anche se con proporzioni diverse, il Real Madrid adotta una politica simile a quella del Napoli, che però frutta al club merengue non pochi introiti. Cristiano Ronaldo cede il 60% dei suoi guadagni da diritti d’immagine al club, mentre Gareth Bale rinuncia al 40%. Il gallese può essere un buon esempio per De Laurentiis. Quando giocava nel Tottenham, Bale percepiva 2 milioni all’anno dalla Bt Sports perché era uomo immagine per la Premier, soldi che ha perso andando a giocare in Spagna. Tuttavia, nella Liga ha guadagnato un nuovo contratto con la Sony per il lancio di un telefonino. Dei dieci milioni netti riconosciuti al calciatore, il Real Madrid ne ha quindi messi in cassa 4. Parliamo di importi riferiti ad un solo calciatore, benchè importante. La SSC Napoli, diversamente, contabilizza proventi derivanti da diritti d’immagine dei calciatori mediamente non superiori a 500 mila Euro, cifra che fa riflettere sul fatto che non è tanto importante detenere i diritti d’immagine, quanto piuttosto farli fruttare.