Il passaggio di Higuaìn alla Juve, volendolo raccontare con un ampio eufemismo, è stato affare tutt’altro che tranquillo. Se n’è parlato durante le convulse ore che hanno preceduto la firma del contratto, se ne riparlerà ancora per mesi, forse per anni. La conferenza del bomber argentino nella sala stampa dello Juventus Stadium, invece, ha avuto una matrice e un indirizzo ben precisi. Sembravano le dichiarazioni di un politico italiano (decida il lettore quale), uno di quelli malati di rancore, che parla da un palco per mezz’ora senza dire niente. Squallido, vuoto, come una brioche dietetica, nella forma e nella sostanza.
Non è dato sapere come sia caratterialmente l’Higuaìn uomo, tuttavia si può dire che nei tre anni passati a Napoli abbia imparato gran parte dei malcostumi del nostro paese. Marca visita di nascosto con un’altra società, firma un contratto che lo manderà a lavorare lì e non fa nemmeno una telefonata di saluto ai suoi ex colleghi e al vecchio capo, scusandosene solo diversi giorni dopo davanti alle fredde telecamere.
Di tanta mancanza di educazione, di tatto, finanche di senso di responsabilità, a suo dire, lui non è colpevole. Dal cilindro Higuaìn tira fuori brevi e patetiche frasi il cui concetto di fondo è che De Laurentiis lo ha spinto ad andare via. Lo stesso De Laurentiis che tre anni fa lo tirò fuori dalle macerie del Real Madrid, il cui presidente è uno (Florentino Perez) che ad Higuaìn ha sempre e manifestamente preferito il suo alter ego Karim Benzema.
Nelle ore precedenti e in quelle immediatamente successive la firma di quel contratto, l’opinione dei tifosi si è spaccata in due. Da un lato, l’argentino è un traditore, ha abbandonato i napoletani dopo aver cantato “difendo la città” in favore dei rivali storici juventini, che dalla curva riversano un meno conciliante “Vesuvio lavali col fuoco”. Dall’altro, il capro espiatorio è De Laurentiis, perché non lo ha saputo trattenere costruendo intorno a lui una squadra da scudetto, perché lo ha chiamato “chiattone” e perché, evergreen, “non vuole vincere, ma intascarsi solo i soldi”. Intanto, mentre non si spiegano ancora alcune uscite e il comportamento anzidetto dei fratelli Higuaìn, l’immediata risposta del patron azzurro è chiara, circostanziata e soprattutto basata su dati di fatto.
Si potrebbe scrivere un libro su come la famiglia De Laurentiis NON abbia intascato nulla dalla cessione dei calciatori, su quanto sia insensato pretendere che un manager rinunci ai suoi compensi per migliorare la sua azienda, o ancora sulle sontuose campagne acquisti fatte dopo aver incassato i contanti delle varie clausole. Il punto è un altro. Il punto è che un manager è pagato per dirigere l’azienda, mentre i suoi sostenitori, tifosi ma anche clienti, pagano per usufruire dello spettacolo.
Nei giorni scorsi, dalle pagine di questo sito abbiamo invocato una rivoluzione culturale intorno al Napoli (link), scrivendo che la maturità della piazza si raggiunge solo con l’amore per la maglia, non dei singoli calciatori, che sono semplici manichini interpreti di un ruolo. Molti tifosi hanno storto il naso su questo discorso, in buona sostanza perché credono che la maglia sia pur sempre indossata dai calciatori, e se questi non sono all’altezza di competere ad alti livelli si ritorna al punto di partenza. E la situazione peggiora, a detta degli stessi tifosi, se all’addio di un calciatore così importante si assiste alla metafora della stalla aperta e dei buoi che scappano.
La storia recente del Napoli targato De Laurentiis, per fortuna, ha dimostrato che la stragrande maggioranza dei calciatori azzurri non la pensa come Higuaìn. Dare oggi troppa importanza a chi ha deciso di scrollarsi quella maglia di dosso (qualunque casacca abbia poi deciso di indossare) significa mancare di rispetto ad Hamsik, capitano che resterà a Napoli a vita, a Reina, che dopo un anno di esilio in Germania ha deciso di regalarsi di nuovo la maglia azzurra, a Callejon, che da non napoletano ha rinnovato il suo contratto per altri quattro anni, aggiungendo che era tutto ciò che desiderava, ed ancora ad Insigne, Jorginho, Mertens, Allan, tutta gente che resterà ancora a lungo. In definitiva, coloro ai quali pesa l’assenza di Higuaìn pensino piuttosto a sostenere chi resta.
Più in generale, è giusto che i tifosi si riprendano i propri spazi, ad esempio lo stadio. Quello deve essere uno luogo a disposizione della sola passione della gente. Basta inneggiare ai singoli, un bel “forza Napoli” li include già tutti, e se qualcuno si sente escluso cavoli suoi. Sono ammessi i calciatori a cantare sotto la curva a fine partita, ci mancherebbe, ma chi va in curva non faccia caso a chi canta e chi no. I calciatori sono solo un mezzo attraverso il quale gioire, non sono essi stessi la gioia.