Odio. E’ questo il termine che in queste ore fa notizia quasi più del gol di Sergi Roberto che, a tempo regolamentare abbondantemente scaduto, ha regalato al Barcellona una qualificazione pazzesca. In Italia abbiamo altro a cui pensare. L’odio è il tema principale, quello diffuso tra le tifoserie, tra i giornalisti, tra giornalisti e squadre di calcio, quello che però pare non sia visibile a tutti.
A seguito delle scintille scaturite dal confronto dialettico tra Aurelio De Laurentiis e Sandro Sabatini al termine di Napoli-Real Madrid ai microfoni di Mediaset Premium, si è alzato l’ennesimo polverone italiano.
Le accuse di De Laurentiis sono state senza ombra di dubbio pesanti ma, ciò che ha avuto un peso specifico insostenibile, è l’ipocrisia che le ha circondate.
Come è possibile che il calcio in Italia venga ancora definito come un gioco e ci si indigni se nel mezzo di una discussione che lo riguarda si fa riferimento a discriminazioni razziali? E’ mai possibile sia ancora un mistero il perchè ad alimentare questo sport ci sia la costante, irrefrenabile ed inattaccabile passione degli italiani?
Troviamo altamente insincero non ammettere che il motivo per cui il calcio in Italia viene vissuto con cotanta frenesia risiede proprio nel fatto non venga più vissuto come uno sport.
Per il cittadino italiano, il gioco del calcio è diventato strumento di rivalsa sociale, porta in grembo inequivocabili e risaputi riferimenti all’extra-calcistici. Ha ragione De Laurentiis quando dice che è dai tempi di Camillo Benso conte di Cavour che il sud non è benvoluto dal nord. E la ragione aumenta quando sostiene che se c’è al mondo un Paese disunito e regionalizzato quello è l’Italia. Forse, il Presidente del Napoli omette soltanto che questa scarsa sintonia è presente anche al sud nei confronti del nord, inevitabile conseguenza del trattamento riservato.
Insomma, l’odio è un sentimento che giace con becera latenza in ogni cittadino di questo Paese, per spirito di appartenenza alla cultura locale, per emulazione, per stupido pregiudizio o per fondamento concreto. Fatto sta che anche dinanzi alla mente più evoluta, che sia del nord o del sud, si trovano tracce di patimento dettato da discriminazione razziale. Una mortificazione che ferisce, discrimina, alimenta a dismisura la voglia di rivalsa, un desiderio incontrollabile che sfocia con devastante naturalezza nel calcio. Non è affatto casuale l’omissione del termine “gioco”.
Che il calcio in Italia non sia più un gioco lo sanno tutti, forse tutti hanno voluto fosse così. Una massa aizzata genera astio, rivalità, accanimento. Una collettività inferocita genera indotto. L’indotto, denaro. Sarà forse questo il motivo per cui problematiche legate al calcio che creano disordini e difficoltà non vengano risolte definitivamente? Forse si intende questo quando si fa riferimento alla mancanza di una volontà politica?
Quando abbiamo ascoltato il Presidente De Laurentiis difendere la città e il meridionalismo abbiamo provato riconoscenza. Ma, a bocce fredde, un velo di tristezza è calato sulla vicenda, un velo che non ha inibito però la visione di un “giocattolo” (il calcio) che funziona, che arricchisce, di danaro o soddisfazione poco importa. Abbiamo visto un sistema al quale tutti partecipano, alla cui “tortura” tutti hanno la libertà di sottrarsi, ma nessuno lo fa.
A noi piace estraniarci da tutto ciò, non ci interessa da quale parte si trovi la ragione e su quale sponda giaccia il torto. Stiamo ancora godendo dello strascico europeo, quella sottile brezza che ha scacciato via momentaneamente il provincialismo di cui soffre l’Italia e ci ha proiettato in un’atmosfera celeste, pura, incontaminata. Quell’accentuato senso di abbandono del pensiero perverso che ci ha fatto godere della verità vera. Un oblio nel quale non vi erano più nemici da distruggere e sputtanare, offendere e mortificare, ma semplicemente un avversario da battere in un gioco. Il Real Madrid per il Napoli e per Napoli è stato questo. Solo questo.
La vigilia dell’incontro tra Napoli e Real Madrid è stata una sublime eternità: un alone di affetto ha avvolto la città, un senso di appartenenza globale si è posato sui sostenitori azzurri. Per strada si camminava da soli, ma la solitudine era una sensazione lontana miglia. E poi quello stadio stracolmo a cinque ore dall’inizio del match, le coreografie, i canti, le urla senza confini al gol di Mertens, la speranza e la sconfitta che per inconcepibile assioma hanno quasi viaggiato a braccetto.
A conclusione di una fatica immane, il triplice fischio dell’arbitro e gli spalti dello stadio San Paolo ancora festanti e ricchi di orgoglio, nonostante la sconfitta, nonostante Sergio Ramos, nonostante un’eliminazione di cui quasi nessuno si è accorto. Il Napoli ha perso, ma la vittoria più bella di tutti i napoletani è stata quella di non aver odiato nessuno.