In questi giorni ricorre il trentennale del primo scudetto vinto dal Napoli. Il 10 maggio del 1987 è una data storica, la vetta sportiva raggiunta dalla città, il punto di non ritorno attraversato il quale Napoli e il Napoli entrarono di diritto nel novero dei grandi. Dieci maggio nel segno del dieci, Maradona, il più grande di sempre.
Guardando gli azzurri di oggi, una squadra bella da vedere come poche al mondo, molti si chiedono se sia il caso di provare un ultimo sforzo economico per tornare a guardare tutti dall’alto. Noi andiamo oltre, affermando senza mezzi termini che, trofei a parte, questo Napoli è più forte di quello di Diego.
Partiamo dal valore complessivo della rosa, inteso non in termini economici (ci mancherebbe), ma di attrattività dei calciatori sul mercato. Se si eccettuano Ciro Ferrara (ceduto alla Juve per necessità) e Andrea Carnevale (finito alla Roma), l’apice della carriera di tutti gli altri, Maradona compreso, è rappresentato dall’esperienza a Napoli. Nel momento in cui si è paventata l’ipotesi della cessione, per tutti è stato un momento di ridimensionamento, compreso il faraonico trasferimento di De Napoli al Milan. Solo per citare i più importani, Giordano fu ceduto all’Ascoli, Bagni all’Avellino, Renica al Verona.
La rosa azzurra degli ultimi anni, diversamente, strizza l’occhio ai grandi investimenti, soprattutto internazionali. L’uomo simbolo di questo discorso, suo malgrado, è Gonzalo Higuaìn, che alla soglia dei trent’anni si è mosso per una cifra superiore ai 150 milioni di Euro tra clausola risolutiva e stipendi lordi. Ma non sono state da meno le cessioni di Cavani e Lavezzi: tre giocatori hanno fruttato alle casse di De Laurentiis la ragguardevole somma di quasi 200 milioni di Euro. A questi vanno aggiunti i giocatori che non lasceranno Napoli, almeno nell’immediato: Hamsik forse si legherà a vita ai colori azzurri, ma nessuno dimentica la corte spietata del Chelsea, del Milan (in formato Champions, non quello di oggi) e della Juve. Discorso simile vale per Insigne, fresco di rinnovo, e per Mertens, ormai prossimo alla firma: mezza Europa farebbe carte false per averli. Le clausole imposte sui contratti e il rendimento offerto dagli ultimi arrivati Hysaj, Zielinski e Milik, infine, suonano quasi come una profezia sulle future offerte per strapparli a Sarri.
Altro punto a favore del Napoli attuale rispetto a quello glorioso degli anni ’80 è l’esperienza europea. Prima si giocava meno in Europa e a livelli meno competitivi, così come oggi è più facile avere accesso alle competizioni continentali: tutto giusto, così come è sacrosanto riconoscere a quel Napoli il trionfo in Coppa Uefa nel 1989, l’unica vittoria internazionale degna di nota. Tuttavia, la notte di Stoccarda pare essere più un esempio isolato che una tappa per il raggiungimento di una stabile dimensione europea.
Difatti, nell’anno del primo scudetto il Napoli perse al primo turno di Coppa Uefa contro i modesti francesi del Tolosa. Poi arrivarono l’eliminazione in Coppa Campioni (sempre al primo turno) ad opera del Real Madrid e, nell’anno del secondo tricolore, la scoppola subita dal Werder Brema: era il terzo turno, e il Napoli perse sia all’andata che al ritorno (2-3 e 5-1). Nei due turni precedenti gli uomini di Bigon faticarono non poco contro lo Sporting Lisbona (vittoria ai rigori dopo un doppio 0-0) e gli svizzeri del Wettingen (0-0 e 2-1 dopo essere passati addirittura in svantaggio al San Paolo). La seconda esperienza in Coppa Campioni, finita al secondo turno dopo aver eliminato gli ungheresi dell’Ujpest Dózsa, fu praticamente l’inizio della fine dell’era Maradona, che si concretizzò nella sciagurata trasferta di Mosca, in casa dello Spartak. Per dirla con linguaggio moderno, quella squadra non seppe mai conciliare l’impegno in campionato con quello di coppa.
Di tutt’altro tenore è l’esperienza europea di questo Napoli. Per il momento non si è vinto niente, ma sono sotto gli occhi di tutti le divertenti sfide (spesso vittoriose) contro corazzate come il Liverpool, il Bayern Monaco, il Manchester City, l’Arsenal, il Chelsea, il Benfica e lo stesso Real Madrid, squadre dal palmares ben più ricco dei partenopei e delle avversarie del Napoli di Maradona.
Detto della gestione sportiva, è il caso di fare un raffronto anche sotto il punto di vista aziendale. Il Napoli attuale e quello che fu sono accomunati da una circostanza particolare: un bel giorno il giocatore più rappresentativo è andato dal presidente e ha chiesto rinforzi per vincere. Maradona si lamentò con Ferlaino perchè faceva troppa fatica contro la Cremonese, Higuaìn ha mandato il fratello da De Laurentiis a chiedere “altri giocatori” in luogo di quelli in rosa. Stessa richiesta, risposte diverse. Se l’Ingegnere accettò il compromesso, il produttore cinematografico ha rispedito al mittente la missiva della famiglia Higuaìn. La considerazione, giusta per carità, è la seguente: almeno Ferlaino ha vinto, De Laurentiis no. Premesso che il nuovo Napoli conta due coppe Italia e una Supercoppa, che non è poco, Ferlaino ha vinto, ma a quale prezzo?
Il 24 marzo del 1991, nemmeno un anno dopo il secondo scudetto, Maradona gioca la sua ultima partita con la maglia del Napoli. Scappa a causa dei suoi problemi personali e non torna più, nonostante un contratto ancora un corso. Piena solidarietà a Diego, ci mancherebbe, ma in casa Napoli passato il Santo passò la festa. La smania di vincere impose una gestione sovradimensionata della società e ciò diede in breve tempo i suoi nefasti frutti.
Nel giro di pochi anni tutti i migliori giocatori furono venduti per estrema necessità, se non addirittura per evitare un imminente fallimento. Prima di Pasqua ’98 il Napoli era già in B, e chi pensava che i nuovi investitori (Corbelli prima e Naldi poi) potessero risolvere i problemi, in realtà non aveva capito che il baratro era stato solo spostato qualche metro più in là. Il fallimento, più volte rimandato, arrivò puntuale nel 2004, dopo anni di anomimato in cadetteria, subendo l’ultima beffa in una retrocessione in serie C mai sancita sul campo. Per dirla con una metafora culinaria, mangiare al ristorante di Cracco ci è piaciuto, poi però è arrivato il cameriere e per pagare il conto abbiamo dovuto lavare i piatti per sei mesi.
Al contrario, una società snella e solida, senza debiti con le banche, ha consentito a De Laurentiis di gestire al meglio le sue risorse, cedendo solo calciatori desiderosi di cambiare aria e sempre alle condizioni imposte dalla società. Nondimeno, i tanti soldi incassati dai trasferimenti (talvolta dolorosi) sono stati puntualmente reinvestiti sul mercato e la squadra si è dimostrata sempre rafforzata rispetto all’anno precedente.
Ultimo aspetto, ma non meno importante, della gestione virtuosa di questa società rispetto a quella di maradoniana memoria, è la prospetticità del parco giocatori. Questo discorso si ricollega al precedente, nel senso che ad un certo punto Ferlaino dovette fare di necessità virtù, vendendo il meglio che aveva per tappare i buchi di bilancio. E’ il caso di Ferrara come detto, ma anche di Fabio Cannavaro, di Fonseca, di Pecchia, di Zola, di Crippa e di Taglialatela, tutti giocatori che in condizioni normali avrebbero sicuramente rappresentato un degno ricambio rispetto alla vecchia guardia, ma dei quali la società si dovette privare almeno per disputare dignitosamente la stagione successiva.
In direzione esattamente opposta viaggia questo Napoli. Negli anni De Laurentiis è riuscito nell’intento di migliorare la qualità abbassando l’età media. Oggi il Napoli è stabilmente al vertice e nella top 15 del ranking Uefa soprattutto grazie a Ghoulam (26 anni), Koulibaly, Jorginho e Insigne (25), Milik e Hysaj (23), Zielinski (22), Rog (21) e Diawara (19): ciò significa poter costruire un ciclo che va dai cinque ai dieci anni intorno all’ossatura della squadra, fermo restando il reinvestimento dei proventi di eventuali cessioni. Questa è lungimiranza, prospettiva di crescita, programmazione a lungo termine. A chi dice che con questa società non si vincerà mai nulla di importante rispondiamo con una domanda: ne siete proprio sicuri?