Un famoso sito calcistico satirico (ma nemmeno più di tanto), nel commentare il mancato accesso dell’Italia al mondiale russo, ha riassunto impeccabilmente sette anni di gestione della Nazionale ai mondiali: nel 2010 siamo stati eliminati ai gironi dalla Slovacchia, nel 2014 sempre ai gironi ci ha fatto fuori un pareggio contro Costa Rica, mentre nel 2017 ai playoff ci elimina la Svezia più scarsa degli ultimi trent’anni.
Non giriamoci intorno: l’Italia di Ventura ha giocato male, aveva poche idee e sicuramente questa generazione di calciatori non è la migliore di sempre, ma addebitare oneri al commissario tecnico in questo momento è come dare la colpa al parmigiano dopo aver preparato una pastasciutta scotta, insipida e con i pomodori marci.
Sette anni, dicevamo, tanti ne sono bastati per ridurre in macerie la seconda nazionale al mondo per titoli mondiali vinti. In questo periodo, è bene ricordarlo, è accaduto di tutto. Va bene la nostalgia, ci mancherebbe, tra gli anni ’80 e ’90 il nostro campionato è stato il più competitivo e attraente al mondo, ma non bisogna fare gli struzzi.
La struttura politico economica dell’epoca ha portato al potere personaggi che, esaurito il loro tempo, sono stati disattivati a livello imprenditoriale, se non falliti o addirittura arrestati per reati finanziari. Fino a una ventina di anni fa, a parte gli Agnelli che meritano un discorso a parte, in Italia regnavano Berlusconi, Moratti, Cragnotti, Sensi, Tanzi e Cecchi Gori. Dove sono adesso? Ma soprattutto, cos’ha ereditato il movimento dopo il loro addio? Le macerie, appunto, al di fuori di ciò che ha rappresentato Calciopoli.
In un contesto del genere, è praticamente un’ovvietà constatare che le maggiori società del panorama calcistico nostrano, quelle che dovrebbero fornire alla nazionale i giocatori più forti, diventino terra di conquista per non meglio identificati magnati rappresentanti di fondi di investimento. Senza voler fare i presuntuosi, crediamo che a questi signori, da Suning a Pallotta, da Li a Saputo, della nazionale italiana e del movimento annesso interessi poco o nulla.
E la Juve? Come detto merita un discorso a parte. Dopo Calciopoli, la famiglia Agnelli ha fatto di tutto per riportare la società calcistica ai fasti di un tempo. Ci è riuscita eccome, però nel frattempo anche l’asset automobilistico andava riqualificato. Il risultato finale è che entrambi i comparti sono ormai lontani dall’Italia, tra una Fiat che ormai parla lo slang di Detroit e una Juve che pesca oltre confine tutti i suoi uomini di punta del futuro.
Il giocattolo politico interessa invece, e tanto, a Carlo Tavecchio, uno che in poco tempo è passato dalla presidenza della Lega nazionale dilettanti alla monarchia assoluta in tutti i settori del calcio italiano ai massimi livelli. Prima si è preso la presidenza della Federazione, poi ha fatto sì che il Consiglio federale della stessa Figc lo nominasse commissario della Lega Serie A, con l’obiettivo di riformarne il format e lo statuto. Nulla di ciò è stato attuato e nemmeno discusso al momento. In compenso, è tutto suo il merito di aver portato Gian Piero Ventura alla guida della nazionale.
In questi sette anni il sistema ha partorito una sola squadra al vertice del calcio italiano, la stessa Juve che non ha eguali per strutture a disposizione e introiti per diritti televisivi, elementi dai quali scaturisce un’ineguagliabile capacità di pagare clausole e ingaggi ai più forti giocatori in circolazione, chiedere a Roma, Napoli e Fiorentina.
Una Lega che tutela l’interesse comune e una federazione che applica le regole in modo imparziale avrebbero dovuto quanto meno mettere all’ordine del giorno un confronto col governo, al fine di discutere la redistribuzione dei proventi da diritti televisivi, nuovi fondi per i vivai e le strutture. Ma non una parola è stata spesa, in nessuna sede, e quella che dovrebbe essere l’eccellenza del calcio italiano, da sempre in nazionale è utilizzata l’espressione “il blocco Juve”, ormai al calcio italiano non guarda più. Proprio in questi giorni, l’amministratore delegato bianconero Marotta non ha usato mezzi termini nel definire “un’ossessione” la vittoria della Champions.
Ultima questione, ma non certo per importanza, riguarda il nome del successore di Ventura appena esonerato: si fanno i nomi di tanti illustri allenatori, vittoriosi in campo nazionale e internazionale, e per Gigi Di Biagio solo timide voci di “traghettatore”. Ci sono almeno tre motivi validi per fare dell’attuale selezionatore dell’Under 21, la guida dell’Italia dei grandi al prossimo Europeo.
Innanzitutto è giovane ed ha voglia di emergere, particolare non da poco se si è rimasti scottati dall’esperienza di un settantenne a fine carriera. In secondo luogo, data la giovane età, non pretenderebbe uno stipendio tale da costringere i vertici federali a fare i salti mortali tra sponsor e fondo cassa. Terzo, scusate se è poco, con l’addio alla nazionale di diversi “senatori”, Di Biagio sarebbe il più indicato per l’individuazione dei migliori giovani da lanciare nella nazionale di domani.
Perché, anche se c’è tutto il tempo per fare, il domani comincia oggi.