Il Napoli e i giovanissimi hanno sempre avuto un fattore comune: suscitare in me interesse. Allora ho pensato di insinuarmi nei meandri dei meccanismi che determinano l’interesse dei giovani per la materia calcio nella nostra città.
Ho avuto il forte sentore che il Napoli e i giovanissimi napoletani quasi mai si sono tenuti per mano.
A prescindere dalla straordinaria parentesi maradoniana – periodo in cui il marchio Napoli ha accalappiato giovani ed affascinati estimatori – il Napoli Calcio ha fatto poca breccia nei cuori dei ragazzini, sebbene questa affermazione sia circoscritta ad un campione infinitesimale. Forse troppo esigua la sua bacheca, troppo sterile la sua storia per essere notato, troppo poco stimato per generar seguito?
Eppure i banchi di scuola sono sempre stati divulgatori di passione sportiva. Sono sempre stati sede di dibattiti calcistici, di sani sfottò, sono stati anche indirizzatori di fede.
Ma si sa, l’adolescente è un individuo in formazione, cerca appigli, certezze, punti di riferimento solidi, prestanti, presenti e perché no, vincenti.
E’ stato sicuramente questo il motivo per cui si è navigato per anni in mari bianconeri con solo qualche sporadica macchia di azzurro.
Quando De Laurentiis, con fare risentito, evidenzia il fatto che la società da lui capitanata è una delle poche realtà cittadine ad aver esportato la faccia orgogliosa di Napoli in giro per il mondo, non dice un’eresia.
E i giovani lo sanno, l’hanno notato e apprezzato.
Da quando il Presidente ha proiettato gli azzurri in cima al calcio italiano affacciandosi spessissimo sui prestigiosi palcoscenici europei, il Calcio Napoli ha cominciato a fare breccia anche tra i giovani, tramutandosi da vergogna da ignorare a orgoglio da mostrare.
Ce lo conferma Salvatore, alunno dell’I.C. San Giovanni Bosco di Volla (Napoli), che ha partecipato, assieme ai compagni che interverranno di qui a venire, al PON “Giornale Digitale”:
“Mi piace il calcio in generale, il Napoli è la squadra della mia città e anche in famiglia tutti tifano Napoli. E poi è una grande squadra.
Ho iniziato a tifare quando in città è arrivato Higuain, prima il calcio non seguivo proprio”.
Il lavoro di tentato addestramento alla materia è stato introdotto dal papà quando Salvatore era appena un bambino:
“avevo sette anni, ma il calcio non mi stimolava alcun interesse e in curva B mi addormentai. Poi la passione di mio zio mi ha coinvolto. Da tifoso invece ho assistito a Napoli-Gonoa finita 3-1 per il Napoli. Da quel momento in avanti allo stadio ho vissuto sensazioni stupende, è stato bellissimo sia veder giocare bene la squadra ma anche sentire addosso la sensazione che migliaia di persone hanno lo stesso desiderio: vincere!
Da quel giorno, non ho smesso di vedere una sola gara del Napoli. Anche se gli azzurri non dovessero in futuro vivere la gloria di questa epoca io rimarrei comunque tifoso del Napoli perché ormai mi sento legato a questa maglia e a questi colori”.
Una passione per l’azzurro tornata dunque prepotentemente in auge, finalmente tornata a impregnare il tessuto sociale di Napoli e provincia e ad alimentare interesse nelle giovani leve. In attesa che De Laurentiis si decida a rendere realtà una scugnizzeria tutta partenopea che, sino ad oggi, abbiamo solo potuto immaginare, la società azzurra ha il merito di aver decisamente accresciuto il seguito tra i giovanissimi.
Un fenomeno nuovo, soprattutto relativamente alla quantità dei flussi di interesse divampati, un dato di fatto che qualche tempo fa per noi de “IlPartenopeo.it” era un auspicio. Un interesse nuovamente vivo, tanto da indurmi a continuare il viaggio nell’acerbo ma affascinante mondo giovanile.
Mi sono chiesto: ma i ragazzi sono oggi interessati alle sorti della squadra partenopea soltanto perché in lotta per le prime posizioni?
Chi prova disinteresse perché non ne è attratto?
E soprattutto, cosa pensano del messaggio etico che questa disciplina oggigiorno sprigiona?
Sulla stessa lunghezza d’onda di Salvatore vi è Stefano:
“si, è vero, negli ultimi abbiamo l’impressione che l’interesse nei nostri compagni sia aumentato rispetto agli anni passati e sicuramente la motivazione credo risieda nel fatto che il Napoli stia ottenendo maggiori risultati rispetto al passato. Vedo più accanite anche le ragazze, ma credo che questo sia legato all’aspetto estetico dei calciatori”.
Ascoltavo Stefano con grande interesse, mi sembrava uno dei tanti ragazzini appassionati alla materia ma anche al grande palcoscenico, quello su cui va in scena il calcio più prestigioso. E invece Stefano fa il Mertens e si smarca repentinamente lasciando alle mie convinzioni la valenza di un nulla: da anni seguo il calcio ma confesso che sono attratto delle serie minori che mi sembrano più vere”.
Uno squarcio sull’oscuro, potremmo definirlo quello di Stefano. La riflessione di un adolescente che apre a scenari piuttosto inquietanti e pone interrogativi imbarazzanti al mondo degli adulti.
Un ragazzino privato della fiducia verso il prossimo rischia di essere un albero destinato a produrre frutti privi di entusiasmo.
Frutti che Emanuela raccoglie grazie alla ginnastica:
“il calcio mi piace come gioco, ma lo detesto come contesto. Io danzo e partecipo a concorsi, mi accorgo che in questo campo si è concentrati su se stessi e soprattutto non si denigra l’avversario, lo si rispetta e in taluni casi lo si ammira anche. Nel calcio, invece, mi accorgo che si odia l’avversario e la trovo una cosa davvero contro la logica dello sport.
Non mi piace il fatto che un calciatore venga prima osannato quando indossa la nostra squadra del cuore e poi odiato quando cambia casacca. Credo sia giusto apprezzarlo sempre un calciatore, a prescindere dalla sua squadra di appartenenza. Penso ad Higuain, passato dal Napoli alla Juventus qualche tempo fa.
In merito, ho una teoria forse tutta mia: credo nel calcio finiscano per riversarsi tutte le tensioni che si addensano dentro di noi. Quando si è vittima di nervosismi, ci si sfoga col calcio. Gufare contro un’altra squadra consente di liberarsi di tutte le tensioni che abbiamo dentro. Lo vedo nei miei compagni, ma anche negli adulti e questa cosa mi fa tanta paura perché mi fa capire che nelle persone c’è tanto nervosismo da sfogare”.
Daria, disinteressata al calcio, la pensa alla stessa maniera:
“non seguo il calcio, non mi da nessuna emozione. Mi capita di guardarlo, papà in casa non si perde una gara, ma la sua euforia, il suo entusiasmo, il suo accanimento, proprio non lo capisco. Mi accorgo, però, in maniera evidente che si imbestialisce quando attaccano Napoli, vorrebbe entrare nel televisore per difenderla”.
Il calcio – dunque – come fenomeno sociale piuttosto che come semplice sport. Gli spunti di riflessione di Daria ed Emanuela, maturi e veritieri, sono serviti al tavolo degli adulti come piatti indigesti e forse anche stantii per quanto datati.
In merito al recupero dello smarrito senso di sportività auspicato da Emanuela è Salvatore ad entrare a gamba tesa:
“Godo anche quando perdono gli altri, non solo quando vince il Napoli. Si, è vero, è un concetto molto lontano dallo sport, ma nel calcio per fortuna esiste la rivalità che non è solo sport, è una rivalsa sociale per il sud rispetto al nord. A me piace che sia così, ti da uno stimolo in più.
E’ vero che quello che sto dicendo alimenta tensioni, ma mi auguro sempre che tutto rimanga entro i limiti di uno sfottò senza mai arrivare a gesti violenti”.
Mentre Salvatore si racconta lo guardo fisso negli occhi, mi mette in ansia, soprattutto quando formalizza la frase “per fortuna”. Una espressione che ha il senso della necessità, che trasmette quel sapore di insano che la società moderna riversa su questi ragazzi: discriminazione, frustrazione, rabbia. Bastano questi tre vocaboli per riassumere sinteticamente la parte marcia che alimenta lo sfrenato desiderio di calcio nei giovani.
Dove è finita la sana voglia di prevaricare l’avversario e stringergli la mano a gara conclusa? Mi chiedo.
Raffaella rincara la dose: “Non sono una tifosa. Mi piace il calcio ma non mi piacciono gli episodi che poco c’entrano con lo sport e che purtroppo spesso finiscono per contaminarlo. Ricordo la morte del tifoso Ciro Esposito che mi ha scosso tanto. Penso che sia assurdo il fatto che si verifichino questi episodi.
Io sono molto legata alla mia terra, ma il Calcio Napoli non lo rappresenta”.
Christian è invece consapevole del suo essere double face e ne è pure rammaricato: “il calcio sarebbe uno sport ma di fatto non lo è. Lo seguo e confesso che, al di là del gioco, mi piace anche il fatto di sfogare la mia rabbia nei confronti di chi non mi accetta. La mia terra, il mio popolo, io stesso, sono offeso e discriminato in quanto napoletano e questo mi spinge alla reazione dura. Sono contro la violenza, non sarei mi capace di compiere un gesto insano, ma non nascondo che, se chi mi offende e discrimina fosse vittima di un raid di violenza organizzato da altri, ne sarei contento. Lo so, è sbagliato, ne sono consapevole, ma è una cosa che mi fa troppo rabbia”.
Ad ascoltare Christian, oltre al sottoscritto, vi sono altri compagni. Vedo un altissimo livello di attenzione, uno di quelli che gratificano il lavoro di un docente. I ragazzi sono affascinati dall’intensità del discorso, un tema che può non interessare alla stessa maniera la totalità dei presenti ma che sta sviscerando vissuti latenti comuni a tutti. Io l’ho intesa come quell’àncora di salvataggio avvistata improvvisamente e che ti libera da quella voglia di non dir nulla di te perché convinto di essere incompreso.
Guardo Emanuela negli occhi e le scendono le lacrime. Sono lacrime di dolore, di rabbia, di un vissuto che non appartiene solo a lei ma a tutti i suoi compagni. Sono lacrime che catalizzano la partecipazione di tutti, sono le lacrime di tutti. Sono le lacrime di ragazzini eccezionali, giovanissimi ma maturi, almeno tanto da sfiorare il tasto dolente della loro personale condizione. Loro sanno di essere belli, ma sanno anche di essere vogliosi di un qualcosa che non sono capaci di trovare: punti di riferimento saldi.
Il discorso si discosta dal calcio. Prende piede. Coinvolge tutti, apre rubinetti a secco da tempo. Li guardo e li abbraccerei tutti, ma anche io ho i miei limiti e non lo faccio.
Questi ragazzi vedono adulti fare i bambini e bambini fare gli adulti. Vedono la giustizia trasformata in ingiustizia, il sano in insano, il deprecabile in merito. E ne soffrono.
Sono proiettati in un mondo che mostra troppo presto le sue asperità e sono in cerca di gusci, di protezione. Spesso non li trovano e si rifugiano nella spavalderia.
Vivono il calcio come divertimento quando vanno a scorribandare su di un terreno di gioco, ma quello visto in tv no, non più. Quello per loro non è più sport. E’ solo un mezzo come un altro per scaricare tensione. E’ un contenitore gigante dove potersi arrabbiare, inveire, insultare, odiare.
Ma questi sono ragazzi eccezionali perché consapevoli.
Uno sport che di sport non ha più nulla, che dispensa nel mondo tensioni e messaggi poco edificanti, ha stavolta ha avuto il merito di farmi entrare nell’animo di questi ragazzi ed apprezzarne la straordinaria grandezza.
Questi giovani dovrebbero tornare a vivere semplicemente la loro età senza essere letteralmente invasi da questioni più grandi di loro.
Mi sovviene uno dei tanti episodi che colorano quotidianamente la mia carriera di insegnante: lunedì 20 settembre del 2017, prima ora, lezione su Michelangelo Buonarroti. Il gruppetto dei maschi è frenetico, eccitato. Ne chiedo il motivo, la risposta è la solita: “niente prof”.
Con la faccia che ha Eduardo De Filippo in “Natale in Casa Cupiello” nel momento in cui cerca di capire gli incomprensibili dialoghi tra la moglie e la figlia, zittisco. Ma poi un nome mi fa imbestialire: Mertens. Giunge alle mie orecchie, il suo gol a Roma con la Lazio era l’argomento di discussione. Stava per partire la solita ramanzina ma mi giunse prima la loro felicità.
Ragazzi, quel gol vi ha dato gioia? Vi ha emozionato? Ha fatto scorrere un brivido sulla vostra pelle? Il “si” collettivo è intenso, urlato, è sacro.
E allora si – esclamo – quel gol è bello quanto la Cappella Sistina. Godetene. Di Michelangelo ne parleremo tra cinque minuti.
Immagino siano stati i cinque minuti più brevi della loro vita.