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Tu chiamala, se vuoi, confusione

Abbiamo fatto trascorrere più di qualche ora, abbiamo ritenuto fosse opportuno non commentare a caldo la nefasta direzione arbitrale di mercoledì sera.

Diciamo che, nello specifico, non lo faremo nemmeno in questa occasione, non ci interessa urlare al calcio di rigore, se ne parla ormai da due giorni e le teorie contrastanti sono ancora vive e vegete. Come potremmo noi, adesso, dissipare tutti i dubbi?

Certo, a primo acchito (a dire il vero anche dopo accurata rivisitazione), è istintivo salire sul carro di chi grida allo scandalo perché, con tutte le precauzioni del caso, di scandalo si tratta.

Ma il problema è un altro: il VAR è un disastro. O meglio, lo è l’utilizzo che se ne fa. Lo strumento c’è, è valido, potrebbe aiutare tantissimo se solo lo si usasse a dovere. Il punto è che alla base sembra esservi la volontà di evitare l’inequivocabilità.

Inizialmente, le cose sembravano andare meglio, lo strumento veniva utilizzato con più uniformità e, soprattutto, solo nei casi di evidente errore. Poi, una serie di modifiche al protocollo, tutte incalanate verso una sola direzione: non eliminare l’interpretabilità del direttore di gara.

Morale della favola, si è tornati da dove si era partiti.

I benpensanti interpretano l’evoluzione come un fatto romantico, come l’intenzione di voler restituire al calcio ciò che al calcio è stato tolto: spontaneità, immediatezza, imprevedibilità e, perché no, anche l’errore.

I malpensanti, invece, ci vedono malafede, interpretano la retromarcia come un passo necessario da fare per non far perdere alle giacchette nere il potere di indirizzare le gare a proprio piacimento.

Quale sia la verità non lo sappiamo, sappiamo, però, che così è triste assai. Partecipare ad un gioco le cui regole non sono chiare non fa piacere a nessuno, avere a che fare con una classe arbitrale che sprigiona da tutti i pori l’arrogante egemonia dei potenti è un qualcosa che non si può accettare nel 2019.

E allora che si fa?

Ecco, qui si apre il capitolo di ciò che proprio non ci va giù. Non ci piace ciò che fa il Napoli, ma non ci piace nemmeno ciò che fanno i tifosi.

Del Napoli non ci piace la delicatezza delle proteste, quando ci sono. Sino ad oggi ha subìto silenzioso, dinanzi all’assurdo operato di Giacometti ha, invece, alzato la voce. E poi?

Niente, non seguirà niente. Il Napoli continuerà il suo campionato, persevererà nel partecipare ad una competizione di cui non condivide i torbidi regolamenti, acquieterà momentaneamente la propria rabbia sino al prossimo scandalo. Non ci piace, proprio no.

Sono troppe le cose che non vanno e, forse, i torti arbitrali sono solo la punta dell’iceberg. Vogliamo parlare di bilanci? Cos’è – se non follia – il non saperci spiegare perché nel campionato italiano (ma anche in quello europeo) continuano a ricoprire un ruolo di primissimo piano club con voragini debitorie? Eppure il Napoli è lì, partecipante tutto sommato passivo di uno spettacolo sovente indecente.

E’ troppo banale – seppur doloroso – darsi una risposta: ai vertici societari dispiace – ovvio – ma non è poi la fine del mondo. Quella, ci sarebbe solo se a fine campionato si arrivasse quinti.

I tifosi, in fondo, sono le vere vittime. Ma nemmeno va bene infervorarsi ciclicamente per poi tornare ad essere spettatori inermi di uno spettacolo indegno. Andrebbero praticate proteste radiali, forti, decise, incisive, tipo la disdetta di tutti gli abbonamenti televisivi e la disertazione totale dello stadio da parte di tutte le tifoserie che si sentono vittime di un sistema.

Solo così – forse – si potrebbe arginare il fenomeno.

E se proprio non ci si riuscisse in quel modo, almeno rimarrebbe la magra ma impagabile consolazione di essere stati coerenti.

About author

Guido Gaglione è docente di arte e immagine, operatore di ripresa e giornalista pubblicista dal 2015.
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