La sera del 23 dicembre 1888, ad Arles, Vincent Van Gogh si tagliò un orecchio con un rasoio, lo avvolse in un foglio di giornale e lo fece recapitare a una donna, forse una prostituta. Fu un gesto di rabbia, di disperazione, di inconsulto isterismo. Si trattò dell’ennesima azione incontrollata di un uomo talentuoso e tormentato, baciato dalla genialità ma vittima dei suoi limiti.
Da domani in avanti, nelle scuole, per trasmettere ai ragazzi l’incidenza che la mente umana ha sulle potenzialità di ognuno di noi, assieme al maestro olandese, bisognerà parlare anche di Gonzalo Higuain.
Un uomo nato sotto una stella lucente, venuto al mondo con una straordinaria dote naturale: quella di saper giocare a calcio.
A quelli come lui, il palcoscenico è stato quasi dovuto, vi è salito con una certa disinvoltura, quasi senza fatica. Le qualità tecniche sopraffine ed una propensione naturale ne hanno fatto un predestinato.
Una premessa – questa – che però non sfocia in maniera scontata nella parola felicità.
Negli occhi di Gonzalo si è letta sempre una vena di insofferenza, di tristezza, di incompiutezza.
In effetti, innescando una sorta di rewind iconografico, non ci si imbatte in sorprese: alle straordinarie qualità tecniche – su cui ha costruito tutta la sua carriera – l’argentino non ha mai affiancato forza dei nervi, la freddezza e la maturità. Ha indossato le vesti del Re in realtà ovattate, fatte di un mare di amore (come nella sua parentesi napoletana) o di fiumi di garanzie tecniche come nell’esperienza juventina. Ma, quando è stato privato di queste atmosfere soavi e, si è trattato di mettere in campo la forza della mente, Gonzalo è sempre imploso nella sua incompletezza.
A prescindere dalla casacca indossata, in campo è sempre sceso senza sorriso; quello, lo ha sovente lasciato negli spogliatoi. Ai momenti di gioia – limitati alle marcature realizzate – ha sempre alternato gesti di stizza, di insofferenza nei confronti degli errori tecnici dei compagni, di scoramento nei momenti di difficoltà, di rabbia allorquando l’epilogo positivo era ridotto al lumicino e destinato a fare spazio alla sconfitta.
Di Gonzalo Higuain si metteranno in vetrina tutti i suoi magnifici gol, tutta la sua sapienza calcistica, non certamente i titoli vinti il cui numero è assolutamente esiguo al cospetto del valore della stoffa con cui è cucito il suo talento.
Ma, di Gonzalo Higuain, gli italiani ricorderanno anche le sue espressioni tristi, le sbuffate stizzose, le reazioni infantili, gli occhi pieni di rabbia.
Il talento non ha mai vinto una sensibilità che lo ha reso fragile.
“Cosa sono io agli occhi della gran parte della gente? Una nullità, un uomo eccentrico o sgradevole – qualcuno che non ha posizione sociale né potrà averne mai una; in breve, l’infimo degli infimi. Ebbene, anche se ciò fosse vero, vorrei sempre che le mie opere mostrassero cosa c’è nel cuore di questo eccentrico, di questo nessuno”.
Questo era il pensiero intimo di un Vincent Van Gogh solo ed incompreso. Chissà se varrà anche per un misconosciuto Gonzalo Higuain, che va via da perdente ma la cui sconfitta più grande è stata quella di non aver mostrato a nessuno il suo cuore.