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A volte ritornano: gli Hooligans 2.0 e l’esibizionismo della violenza

Gli Europei 2016 che si stanno disputando in questi giorni in Francia non stanno offrendo uno spettacolo calcistico degno di una ribalta così prestigiosa, diciamocelo con franchezza. Che il dato tecnico, che emerge dalle prime gare di questo campionato europeo, non sia eccelso sembra appurato, almeno per gli esteti del football.

Al contrario, stanno entrando nelle nostre case le immagini patinate di stadi moderni ed architettonicamente belli, ricolmi di gente proveniente da tutti i paesi d’Europa, traboccanti di folclore e passione calcistica. Una media di 47 mila spettatori a partita, circa 840 milioni di euro di incassi previsti per la vendita dei biglietti, numeri strabilianti.

Uno spettacolo di tifo e di colori, un mondo sconosciuto per il calcio nostrano, dilaniato da contraddizioni interne ed attraversato da una crisi annosa, che si segnala per scommesse, inchieste e partite giocate davanti a poche migliaia di spettatori all’interno di impianti fatiscenti, obsoleti, da vera retroguardia calcistica.

Siamo gli ultimi in Europa per strutture nello Sport ed in particolare nel calcio. Ed abbiamo sempre detto, invece, di esser primi solo quando si parla di cose di cui non andar fieri, come per esempio la violenza negli stadi. Da oggi, però, questa presunta verità deve essere accantonata e catalogata nell’alveo delle urban legend dal retrogusto pallonaro. Non è vero che siamo primi o almeno non siamo soli.

La faccia oscura degli Europei sono loro: gli hooligans. A volte ritornano e loro sono tornati in punta di penna, come sbucando dalle pagine di un romanzo di Stephen King. Speravamo di essercene liberati, auspicavamo la loro estinzione, sotto i sordi colpi di scure della repressione. Il “modello inglese” inaugurato alla fine degli Anni Ottanta dalla Thatcher, la lady di ferro che aveva dichiarato guerra al fenomeno hooligans e ne aveva imposto l’annientamento, aveva illuso tutti.

Il Taylor Report, inchiesta commissionata dal governo per far luce sulla tragica strage di Hillsborough del 1989, aveva trovato la medicina per curare questa peste endemica e debellarla definitivamente. Ecco allora il Football Spectators Act del 1989, che sancì la possibilità di vietare la presenza a eventi sportivi al di fuori di Inghilterra e Galles a persone condannate per reati connessi alla disputa di partite di calcio e, per la prima volta, impose l’obbligo di entrare negli stadi con un documento di identità. Sempre nel 1989 venne creata all’interno di Scotland Yard la National Crime Intelligence Service Football Unit, squadra speciale di sorveglianza anti-hooligans.

Dal Taylor Report nacque anche l’esigenza, divenuta obbligo per le società, di ristrutturare gli stadi: vennero investiti oltre 350 milioni di sterline per costruire o ristrutturare impianti privati attraverso l’eliminazione delle barriere tra il campo di gioco e gli spalti (per evitare tragedie stile Hillsborough) e l’eliminazione del le terraces, le gradinate che erano il covo degli hooligans.

Le misure che seguirono, alla fine degli anni Novanta, sotto il governo Major e poi con Blair, ripresero la falsa riga thatcheriana, nel solco della repressione e di un perentorio giro di vite del fenomeno della violenza negli stadi.

France 2016 ha sancito il fallimento di questa politica: se qualcuno pensava che la repressione potesse dissipare il problema e relegarlo in cantina, si sbagliava di grosso. Ma come è stato possibile? E gli hooligans dove si erano nascosti in tutti questi anni di apparente letargo?

La risposta è semplice ed evidente: non se ne erano mai andati. Perché quello che a volte i media propongono non è che l’effigie riflessa di un mondo surreale, lo scenario filtrato di una realtà che nelle sue pieghe occulta la sua autentica essenza.

Il fenomeno hooligans in Gran Bretagna ha subito solo un occultamento, come nel più riuscito e mistificatorio gioco di illusionismo. Si perché gli hooligans non sono mai spariti, si sono soltanto spostati: dagli stadi alle campagne, dai pub dei quartieri storici alla periferia sperduta di Londra, ai sobborghi dei grossi centri urbani, lontano dagli occhi e dalle telecamere.

Il giro di vite c’è stato, in misura anche corposa e prorompente, ma non ha debellato la malattia.

E le prove stanno nei fatti di questi ultimi giorni e si snocciolano nei numeri che ne scaturiscono: i 36 arresti e 16 feriti a Lille; l’autentico bollettino di guerra di Marsiglia dove sono venuti a contatto inglesi e russi, poi anche bande locali di estrazione nordafricana e inglesi, con 7 hooligans arrestati e tantissimi altri espulsi dalla Francia; i numerosi episodi di violenza che hanno coinvolto hooligans tedeschi ed ucraini e poi russi e slovacchi ed ancora inglesi e gallesi: una marea, più che un’onda, di sangue e di violenza che sembra difficile da fermare e che anzi straripa dagli argini, tracima ed avvolge tutto e tutti.

Ci troviamo dinanzi alla proliferazione di una mania, come se si fosse innescata una danza tribale, un’orgia collettiva a cui tutti vogliono partecipare, spinti da un istinto primordiale che si diffonde come un virus letale.

E il dato che emerge è che non si tratta soltanto di inglesi o britannici in generale, ma anche di tedeschi, russi, ucraini, croati. Un fenomeno che non può certo esser circoscritto dentro i confini geografici, ma che assurge a manifestazione globale. croatia-czech-fans-riot-euro-2016-17062016_1k30lv66w8pdf1koqhx9w5kmmk

Ma che cosa spinge un uomo a tanta violenza? Qualcuno se lo è mai chiesto davvero? E perché in un mondo ormai senza più confini, dove si tende ad omologare ogni cosa, dalla moneta di scambio alla lingua, dagli usi e costumi alle mode, dai consumi al gusto, c’è ancora spazio per l’odio e per la violenza in una partita di pallone?

In un mondo dove sono crollate barriere (almeno sulla carta), in cui più razze condividono ormai lo stesso cielo, dove puoi andare da New York a Pechino in mezza giornata, dove la globalizzazione ha avvicinato popoli della terra tra loro lontanissimi, ci basta andare a vedere una partita di calcio per tornare di colpo al medioevo e sentirci un po’ guelfi e un po’ ghibellini, ognuno a difesa del suo campanile?

Fenomeno hooligans a parte, pochi ricordano che appena due anni orsono, qualcuno a Roma ha sparato e ucciso in occasione di una partita di calcio. E’ evidente come l’argomento imponga una riflessione seria.

Sarebbe interessante capire cosa si cela dietro a quest’onda di barbarie, stando bene attenti a non mischiare il fenomeno hooligans col mondo Ultras, non fosse altro per la rigida struttura gerarchica fatta di compiti ed incarichi ben precisi che caratterizza questi ultimi rispetto ai primi, che invece si contraddistinguono per l’assoluta assenza di qualsivoglia organizzazione e per lo spontaneismo del reclutamento.

Va detto, a scanso di equivoci, che hooligans ed ultras sono mondi tra loro solo apparentemente vicini ma diversi. Fatti salvi i tratti comuni, come il senso di appartenenza al proprio territorio ed al gruppo, un sistema di valori ben definito che va dal modo di vivere la passione per la propria squadra all’abbigliamento, dal vocabolario gergale all’accettazione della violenza secondo codici di comportamento condivisi, alla ritualità di certe azioni; non sarebbe un esercizio corretto assimilare le due realtà.

Ma qui non ci proponiamo di raccontare il fenomeno né di entrare nei suoi meccanismi. E’ interessante, invece, analizzarne la portata sociologica, tentare una riflessione sulle cause più che sugli effetti, per capire se esistano delle soluzioni.

E’ innegabile che la legge del branco può essere una plausibile interpretazione. Cosa pensa un individuo con un lavoro soddisfacente, una vita appagante, una famiglia, quando si rende protagonista di episodi di violenza da stadio? Forse non pensa affatto. Il branco non pensa, non ragiona. Si muove sotto la spinta dell’emulazione: quello che fanno gli altri lo faccio anch’ io. E’ una zona franca in cui l’agire è alimentato da un “non pensiero”, incapace di trovare una motivazione come di prevedere le conseguenze.

L’azione ed il pensiero individuale nel gruppo si organizzano e si sviluppano attorno ad una apparente motivazione personale che rimane soffocata dalla potenza della suggestione collettiva, condizionata dal bisogno di mostrarsi agli altri per essere riconosciuti.

Un tempo le bande giovanili crescevano dentro le metropoli affogate dalla povertà economica e all’interno di ghetti, per lo più. Ora i vandali, i bulli e i violenti sono ovunque. Nei piccoli centri, nei paesi che una volta erano al riparo dalla criminalità e soprattutto anche laddove la qualità della vita è alta.

Allora cosa li spinge a gesti così estremi? A nostro avviso è mera sopraffazione del prossimo. Il gusto di poter affermare di essere più forti, migliori, di aver difeso i propri valori al cospetto del “nemico” secondo un codice pseudo-deontologico.

Seguendo questo codice etico interno ci si prefigge l’obiettivo di assurgere a firm (gruppo) di fama internazionale e se tutti parlano di quella firm, vuol dire che in quell’universo simbolico anche la mia città ed il mio territorio diventano celebri ed “inespugnabili”.

Il gesto che compi diventa “di valore” se tutti quelli che vivono secondo quel codice poi lo ricorderanno in una specie di “letteratura” del movimento. Gli scontri e i saccheggi di Marsiglia, i fatti di Lille come tanti altri accaduti prima, assurgono ad atti eroici ed imprese dal sapore quasi epico.

L’atto di violenza diviene espressione di “machismo” ma al tempo stesso si arroga il diritto di avere portata simbolica e significati che vanno al di là dell’atto stesso, come effigie di determinati valori che la società, nel suo complesso, non può comprendere. E’ una cosa che forse non si può conoscere  e decodificare se non la si vive in prima persona.

C’è una sorta di esibizionismo e di appagamento individuale che si sublima in valore collettivo, la ricerca di una identità di gruppo, attraverso l’affermazione fisica ed il gesto del singolo.

Quello che è certo ed ormai lampante è che i metodi repressivi, i numerosi decreti, i daspo vari non hanno pagato, non hanno risolto alcunché. Gli Hooligans vivono e sono in mezzo a noi.

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Francesco Romano è laureato ed ha un master in comunicazione e marketing. Ama scrivere, lavora presso Mediaset.
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