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Diego 32 anni dopo, lacrime di gioia miste a dolore

Sono passati 32 anni da quando un certo Diego Armando Maradona è fuoriuscito dal varco che porta agli spogliatoi dello stadio San Paolo per presentarsi al popolo napoletano accorso numerosissimo nell’impianto di Fuorigrotta.

Era il 5 luglio del 1984. Sembra ieri. Guardare oggi quelle immagini sbiadite fa un certo effetto. Gli spalti erano festanti e gonfi di entusiasmo, Diego era già un Re, ancor prima di vincere tutto ciò che poi vincerà.

Ma oggi non è soltanto il giorno della memoria, quella che ti proietta nel passato e ti inietta nelle vene brividi nostalgici. E’ anche la giornata del dolore, del disdegno. E Diego non c’entra nulla.

Ciò che ci consegna tristezza ed avvilimento è un qualcosa che in ogni altra parte del mondo risulterebbe ridicola come un clown ad una seduta di laurea. Gli scalini pestati allora da Diego per raggiungere il terreno di gioco sono gli stessi di oggi. Le tribune che accolsero ben settantamila spettatori festanti sono le medesime su cui oggi siede chi incita Gonzalo Higuian. Da allora sino ad oggi, a passare sullo stadio con la fugacità e l’impervia di un temporale, è stata solo una ristrutturazione, quella del 1990. Un restyling presentatosi come una beauty farm e rivelatasi peggio dei fanghi di Vulcano. Lo stadio adesso non solo è maleodorante, ma non ha nemmeno la pelle levigata. L’impianto di Fuorigrotta allora è stato investito da una mareggiata economica che ha corroso le buone intenzioni e prodotto una serie di scellerati interventi. Adesso i posti a sedere sono coperti, ma guai ad andare allo stadio privi di ombrello. Non ci si siede più su un freddo e lurido marmo bianco, ma su simpatici seggiolini rossi (perché rossi!?), ottenendo come unico risultato il fatto che il giornale che ci si mette sotto il sedere per non sporcarsi si fatica a stenderlo. In occasione delle gare si può raggiungere tranquillamente l’impianto in automobile, ci sarà l’imbarazzo nella scelta del posto da occupare. Sarà complicatissimo scegliere tra i migliaia di posti auto ricavati nel sottosuolo. Ed anche gli spogliatoi sono più belli rispetto a prima. L’azzurro che spicca dalle telecamere che hanno accesso alle viscere dell’impianto accarezza il cuore di chi l’osserva. Peccato riguardi solo le parti inquadrate. E’ l’unico rammarico che però riguarda il ventre dello stadio. Eh si, perché allagarsi di seguito ad un acquazzone non provoca un disagio ma solo il divertimento di chi vi gira in gondola.

Probabilmente nemmeno lo stadio aveva messo in preventivo una scalata sportiva così impellente e repentina da parte della squadra. Forse davvero nemmeno il San Paolo credeva di doversi adeguare così rapidamente agli scenari internazionali conquistati con una precocità tale da accostare il proprio andamento a quello della squadra.

Chiediamo scusa ai lettori. L’ironia ha preso per mano lo sdegno.

L’intento era quello di smussarne il risentimento, la rabbia, la delusione, lo sconcerto. Il ricordo della presentazione di Diego al San Paolo è stato celebrato ben 32 volte, tutte le volte con la stessa emozione, tutte le volte versando la stessa lacrima. Noi stavolta vogliamo dare spazio al futuro piuttosto che al passato, e lo facciamo passando per un presente amaro ed indigesto. Lo stadio San Paolo a distanza di trentadue anni non può essere ancora inabissato nelle incancrenite lungaggini burocratiche che ne arenano lo sviluppo, non può sprofondare nelle sabbie mobili che avvinghiano gli addetti ai lavori, il suo definitivo ammodernamento non può essere frenato da una dialettica talmente rovente e dissociante da essere assolutamente inconcludente. Non lo si può accettare.

E queste sensazioni, in periodo di mercato incandescente anche se invisibile, fanno ancora più male. Nell’epoca della modernizzazione, della globalizzazione del calcio, dell’ingresso dei capitali dell’est nel calcio nostrano, nel momento in cui sembra necessaria come il pane una svolta culturale ed economica che aiuti la Società Sportiva Calcio Napoli a compiere il definitivo salto di qualità, la piazza di Napoli è impegnata anima e copro nell’ennesima sfida lanciata al Presidente pappone, al Direttore sportivo fantasma ed anche al suo intoccabile campione, Gonzalo Higuian.

Oggi, a distanza di 32 anni da quando il Re del calcio ha messo piede nella città di Pulcinella, avremmo avuto il piacere di celebrarlo ancora, orgogliosi del passato, ma anche fieri del presente e speranzosi del futuro. Ed invece vediamo ancora una piazza immobile, ferma nella sua arretratezza strutturale e culturale, ma fiera del suo spirito critico rivolto a tutti fuorchè che a se stessa. Vorremmo una volta e per sempre dissociarsi dalla visione surrealista del nostro vissuto, quella che ci vede tristemente sprofondare in una produzione psichica caratterizzata da immagini, percezioni ed emozioni che si svolgono in maniera irreale. Una sequenza irrefrenabile di sogni tramutati in immagini svincolate dalla normale catena degli eventi reali. Desideri che sono decisamente più corposi della ipotizzata permanenza di Higuain a Napoli, più sostanziosi dell’acquisto di Herrera. Talmente più spessi da esser considerati impossibili a verificarsi.

E allora, Diego si. Diego sempre. Diego ancora. Ma la storia deve essere un propellente per un futuro finalmente migliore, non un freno che ci costringe all’immaginazione ostinata della surrealtà.

About author

Guido Gaglione è docente di arte e immagine, operatore di ripresa e giornalista pubblicista dal 2015.
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