Era il 3 maggio del 2014, un giorno qualsiasi per tutti, tranne che per i tifosi del Napoli, impegnati a seguire l’ennesima esibizione di rilievo di un Napoli sulla cresta dell’onda.
Scenario dell’evento lo stadio Olimpico di Roma. A contendere al Napoli la Coppa Italia vi è la Fiorentina di Vincenzo Montella. Il Napoli tornerà a casa con il trofeo, ma di quella giornata calcistica nessuno ricorderà più nulla.
Una gara macchiata indelebilmente da tutto quanto accaduto all’esterno dello stadio prima dell’inizio della stessa. Ciro Esposito, giovane napoletano al seguito degli azzurri, viene assassinato con un colpo di arma da fuoco. Una pagina nera, sia per il calcio italiano che per l’ordine pubblico.
L’evento sportivo scompare dinanzi ad una tragedia simile. Di calcio non si può, non si riesce a parlare. Non può essere che così se si racconta di scontri, spari, aggressioni, di infiltrazioni ultrà, poliziotti e feriti. Doveva essere uno spettacolo in una cornice colorata, si è rivelata una guerriglia infilata nella sfida.
Archiviato l’evento sportivo, solo tanto rumore, mediatico, ma soprattutto del cuore. Quello della mamma di Ciro, innanzitutto. Un cuore ferito mortalmente ma sempre dignitoso. Un cuore vivo ma spento, sanguinante ma mai rabbioso. Un cuore colmo di comprensione, persino dinanzi alla prova più dura cui ci si possa trovare.
Oggi, la Terza Corte d’Assise del Tribunale di Roma ha condannato in primo grado a 26 anni di carcere Daniele De Santis per l’omicidio di Ciro, nonostante per De Santis l’accusa avesse chiesto l’ergastolo. La Corte ha comunque di fatto accolto la tesi dell’accusa e quindi dell’omicidio volontario dell’esponente di estrema destra romana che aveva guidato l’assalto all’autobus di tifosi del Napoli che si stava recando allo stadio.
La famiglia di Ciro ha vissuto momenti molto dolorosi, ma ha atteso i tempi della giustizia accanto ad una città intera, la stessa che affollò il quartiere di Scampia nei giorni del funerale di Ciro.
Una attesa lunga due anni. Due anni in cui Antonella Leardi ha atteso la giustizia provvedesse per lei, e le consentisse di concentrarsi su quello che era il suo compito: diffondere messaggi di pace, di fratellanza, di comprensione reciproca. Messaggi stridenti, quasi inverosimili. Scampia è anche questo? Si chiedeva chi li ascoltava. Una lezione di vita partita dal microcosmo bistrattato e giunto laddove il mondo è avanti e progredito, così avanzato da non essere in grado di garantire a chi ama il calcio di goderne la visione dal vivo. Parole e concetti semplici, specchio di una umiltà pregna di moralità.
Antonella Leardi e la sua famiglia aspettavano questo giorno. Il giorno della verità è arrivato. Qualcuno lo definirebbe “nu juorno buono”, ma lo sarà davvero soltanto quando il gioco del calcio, al di là di eventi drammatici e per fortuna rari come quello di Ciro, ci metterà nelle condizioni l’un l’altro di dire: “se tifi un’altra squadra sei lo stesso mio fratello“, vero, Rocco Hunt?