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Cinque piccole storie sulla Dinamo Kiev

Siamo nel 1927. L’Unione Sovietica è viva e attiva già da un lustro ma la passione per il calcio, quello sport inventato dagli inglesi ma che piace tanto un po’ a tutti, comincia ad infiltrarsi oltre la cortina di ferro. Nel 1927, il Commissariato del popolo per gli affari interni (una sorta di Ministero dell’interno sovietico), sull’esempio della Dinamo Mosca fonda una squadra con lo stesso appellativo anche in Ucraina, vecchia repubblica indipendente annessa all’Unione Sovietica. Tuttavia a Charkiv, all’epoca capitale ucraina, c’era già una squadra di calcio, fondata dal sindacato operaio. Si decise così di spostare tutto a Kiev.

L’interruzione dello strapotere moscovita

Nei primi anni ’30, diversamente dall’occidente, in Unione Sovietica il calcio non aveva un campionato professionistico. Si sfidavano in tornei più o meno ufficiali le squadre appartenenti ai sindacati o al dopolavoro delle diverse categorie. Detto della Dinamo, espressione delle forze di polizia, in quegli anni vennero fondate diverse compagini a nome CSKA (esercito), Metalurg o Metalist (operai delle varie industrie), oppure Spartak, inteso come forze speciali dell’Armata Rossa ma che nel caso della squadra di Mosca era riferito al popolo, in nome del guerriero Spartaco che da solo lottò per la libertà.

Il campionato professionista sovietico ha inizio ufficialmente nel 1936, non in uno stadio, bensì nella piazza Rossa di Mosca, quando un centinaio di volenterosi stese per terra un enorme tappeto verde. Vennero tracciate le linee del campo, montate due porte e furono chiamati per una partita dimostrativa lo Spartak Mosca e le sue riserve. A guardarli c’era niente meno che Josip Stalin, che gradì talmente tanto lo spettacolo da firmare il giorno stesso un decreto che istituiva il massimo torneo di calcio.

E’ inutile specificare che nei primi 25 anni di storia, il trofeo sovietico fu alzato solo da squadre di Mosca: Dinamo, CSKA, Spartak, perfino la Torpedo, che alla fine si imporrà in tre occasioni. Ma nel 1961 inizia a brillare la stella di Kiev, un centro dal potere economico e politico infinitamente inferiore rispetto alla città sede del Cremlino, ma che alla fine dell’esperienza sovietica, nel 1991, totalizzerà il più alto numero di successi in campionato, ben 13.

La partita della morte

Nel 1942, in pieno conflitto mondiale, tutti i campionati di calcio professionistici furono sospesi. Per tenere in forma i soldati (e un po’ per distrarli), si organizzavano però diverse partite di calcio. In Unione Sovietica, Kiev era una delle città in maggior fermento. Le squadre locali della Dinamo, del Ruch e della Lokomotiv erano ufficialmente sciolte, ma i calciatori-militari si mescolavano agli altri presenti al fronte (ungheresi, rumeni e tedeschi) in estemporanee esibizioni. Proprio una di queste rappresentative di derivazione nazista, il Flakelf, sfidò una selezione composta da ex calciatori della Dinamo Kiev e della Lokomotiv, chiamata Start. Gli ucraini vinsero con un netto 5-1. I tedeschi imposero una rivincita, tre giorni dopo, intimando la sconfitta ai sovietici.

La seconda partita si giocò il 9 agosto del 1942 allo stadio Zenit e finì 5-3, ancora in favore dello Start. Qui la storia ufficiale si stacca nettamente dalla leggenda. Quest’ultima racconta che tutti i giocatori della squadra sovietica furono deportati, torturati e uccisi in un campo di concentramento. Fu in quegli anni che la voce si rincorse in modo talmente insistente che la propaganda sovietica coniò il termine “la partita della morte”. I racconti ufficiali, al contrario ed in modo decisamente più documentato, testimoniano di un clima molto tranquillo prima, durante e dopo il match. Ci sono foto scattate dopo il fischio finale che ritraggono ucraini e tedeschi stringersi la mano, ma soprattutto non vi sono tracce di uno sterminio direttamente collegato a quella partita. Con buona pace di John Houston, che nel 1981 decise di far rivivere la leggenda di quell’incontro nel film Fuga per la vittoria.

1975: la Dinamo conquista l’occidente

Negli anni sessanta, il progetto vincente della Dinamo Kiev inizia a prendere forma. Il suo condottiero è Victor Maslov, ovviamente moscovita di nascita. Artefice dei primi successi della Torpedo Mosca, Maslov è un innovatore assoluto. In anni in cui in URSS si praticava ancora la copia sbiadita del 4-2-4 attuato dal Brasile ai mondiali del ’58, Maslov è il primo ad arretrare in copertura le ali d’attacco, inventando di fatto il ruolo di “tornante” (oggi semplicemente “esterno”), senza per questo limitarne l’inventiva: da quel momento si inizia a parlare di 4-4-2. Altra visione futuristica è la marcatura “a zona”, che oggi appare ovvia ma che all’epoca era difficile da far digerire ad atleti che si sentivano undici solisti: Maslov fece sì che i singoli reparti pensassero con una sola testa, e questo mandava in tilt gli avversari. Ma la rivoluzione più grande fu attuata con la pressione attiva ai danni dell’avversario in possesso del pallone, oggi semplicemente pressing sul portatore, e siccome tutto ciò era molto dispendioso sotto il profilo fisico, Maslov ci vide lungo anche nell’intuire che ogni giocatore doveva svolgere un lavoro fisico specifico per le sue caratteristiche. Con uno dei suoi collaboratori nasce la figura del preparatore atletico.

Victor Maslov a Kiev fa il botto, infilando tre titoli consecutivi tra il 1966 e il 1968. Ma non è tutto oro ciò che luccica. Uno dei suoi uomini più fantasiosi, l’ala sinistra Valerij Lobanovskyj (ucraino di Kiev), non è contento di tanta tattica a scapito della componente umana, così prima della tripletta se ne va sbattendo la porta. Appese le scarpette al chiodo inizia ad allenare, subentrando proprio a Maslov alla guida della Dinamo. Un titolo militare conquistato nell’Armata Rossa e la rigida disciplina durante gli allenamenti gli valgono il soprannome di Colonnello. Lui, che aveva litigato col suo maestro Maslov per le eccessive restrizioni, sconfessa clamorosamente il suo innato istinto ribelle in favore di un’esasperata attitudine al comando, atteggiamento che annulla anche la capacità di pensiero dei suoi uomini. Si racconta che ad un suo calciatore che tentò di interromperlo mentre parlava, esordendo con “…ma io penso che…”, Lobanovskyj urlò “Non pensare! Penso io per te, tu gioca”.

L’esercito di Lobanovskyj si impose ancora in patria nella prima metà degli anni ’70, ma fu nel 1975 che i colori biancoblu salirono alla definitiva ribalta nel resto del continente. In Coppa delle Coppe furono letteralmente spazzati via CSKA Sofia, Eintracht Francoforte, Bursaspor e PSV Eindhoven. La finale di quell’anno si gioca a Basilea, il 14 maggio del 1975, e vede contrapposte la Dinamo Kiev e gli ungheresi del Ferencvaros. Gli uomini di Lobanovskyj annichiliscono i biancoverdi con un perentorio 3-0, con sigillo finale di Oleg Blochin, ma è solo l’inizio. Dopo l’estate, in gara di andata e ritorno, la Dinamo ha la possibilità di giocarsi la Supercoppa UEFA contro il Bayern Monaco di Beckenbauer, Gerd Muller e Rumenigge. Non ce n’è per nessuno. All’Olimpiastadion (partita arbitrata dall’italiano Gonella) Blochin fissa il punteggio sullo 0-1, mentre a Kiev lo stesso Blochin annienta i tedeschi con una doppietta. A fine anno, la stella ucraina alzerà il pallone d’oro, distanzaindo nettamente lo stesso Beckenbauer e Johan Cruijff.

La Nazionale sovietica agli Europei del 1988

La parabola di Lobanovskyj prosegue anche negli anni ’80. Nella seconda metà del decennio, il Colonnello allenerà contemporaneamente la Dinamo e la Nazionale sovietica. Saranno ancora tre le vittorie nazionali, condite dal secondo trionfo in Coppa delle Coppe, stavolta a danno dell’Atletico Madrid di Luis Aragones. Ai nastri di partenza dell’Europeo tedesco del 1988 l’URSS è favorita, insieme ai padroni di casa e all’Olanda di van Basten e Gullit. Lobanovskyj a Monaco porta l’intero blocco della Dinamo Kiev, sancendo così una superiorità degli ucraini rispetto alla maggior parte degli atleti sovietici. Saranno proprio gli orange di Rinus Michels a decretare un destino beffardo per gli uomini del Colonnello.

Nella fase a gironi le due squadre sono messe di fronte già alla prima giornata. Vince l’URSS 1-0, ma van Basten litiga con il suo Ct, reo di averlo lasciato in panchina per quasi tutto il match. Minaccia di lasciare il ritiro della nazionale, vuole tornare in Italia ed riaggregarsi al Milan, fresco campione d’Italia grazie ai suoi gol. Una mediazione condotta da Berlusconi in persona ricuce lo strappo: il cigno di Utrecht torna da Michels, che gli promette un impiego più assiduo. Le due squadre travolgono i rispettivi avversari (l’URSS si sbarazza dell’Italia con un secco 2-0), ritrovandosi in una finale che si preannuncia spettacolare. La saetta di van Basten al nono minuto della ripresa è una delle cose più belle mai viste sul rettangolo verde, l’Olanda è meritatamente campione d’Europa. Ma se per tutti Rinus Michels è il mago del calcio totale, i giornalisti d’occidente non possono fare a meno di definire quello di Lobanovskyj “il calcio del duemila”.

Quel ragazzo problematico

Il Colonnello Lobanovskyj visse di calcio e morì di calcio. Era il 2002 quando si accasciò in terra, poco lontano dalla panchina, durante la trasferta sul campo del Metallurg Zaporozhye. La sua Dinamo Kiev, in epoca sovietica e successivamente, ha sfornato una quantità industriale di talenti. Alcuni di essi hanno preferito dedicare quasi tutta la carriera alla squadra ucraina mentre altri, soprattutto dopo la caduta del regime, hanno intrapreso la traversata verso occidente.

Nella seconda metà degli anni ’80 compare tra i ragazzi delle giovanili un attaccante proveniente dal villaggio di Dvirkivščyna, un centinaio di chilometri da Kiev. Si chiama Andriy Shevchenko ed è uno scapestrato. Verso i quindici anni fuma qualcosa come quaranta sigarette al giorno, ma gioca a calcio come nessuno alla sua età. Lobanovskyj gli inietta un liquido a base di nicotina, che da subito fa passare ad Andriy la voglia di fumare. Il Colonnello diventa il padre putativo del ragazzo: lo fa allenare secondo i suoi metodi, lo fa studiare, lo apre al mondo che lo circonda. Gli vieterà di andare via da Kiev per palcoscenici più importanti prima di averlo riconosciuto consapevole del passo che sta per fare. Giocare titolare nella Dinamo Kiev di Lobanovskyj significava superare un test fisico che consisteva in una corsa in salita con pendenza al 18%: i primi che vomitavano facevano tribuna, gli altri panchina, chi vomitava di meno era titolare. Shevchenko non vomitò mai.

Nel 1999 Sheva approda al Milan, che lo paga 25 milioni di dollari. In maglia rossonera resta fino al 2006 (tornerà in prestito dal Chelsea nel 2008, con meno fortuna), segnando in totale 175 gol in 322 partite. In Italia e in Europa vince tutto, compresa una Champions League, nel 2003, un anno esatto dopo la morte del suo maestro. Proprio in quei giorni, lo stadio Olimpico di Kiev fu rinominato Dinamo Lobanovskyj. La finale di quell’anno vide contrapposte a Manchester il Milan e la Juventus. Sheva segnò il rigore decisivo, dopo che la partita era terminata a reti bianche. Nemmeno il tempo di festeggiare negli spogliatoi che il campione ucraino si imbarcò sul primo volo per Kiev. Una corsa sfrenata fino al piazzale antistante lo stadio, dove era stata piazzata la statua del Colonnello, che ovviamente lo raffigurava seduto in panchina col suo sguardo teso e imperscrutabile. Sheva cammina lentamente, arrivando da dietro, con discrezione. Si toglie la medaglia d’oro e la appoggia delicatamente al collo di quel blocco di metallo con le sembianze del suo vecchio mister. Solo poche parole riesce a pronunciare: “ho vinto la Champions, mister. Grazie”.

About author

Paolo Esposito è laureato in Economia Aziendale. Per lavoro si occupa di tax auditing con particolare attenzione al transfer pricing, al financial accounting e alle business restructuring. Tuttavia crede che di calcio sia meglio parlare in napoletano.
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