Agli albori del ventesimo secolo, per la precisione nel 1906, alcuni ragazzi fondano un gruppo sportivo nella città di Lisbona. Usano come simbolo una ruota di bicicletta, perchè prediligono il ciclismo, ma amano un po’ tutte le discipline. Decidono di chiamarsi Grupo Sport Benfica, poichè provengono tutti dalla freguesia di São Domingos de Benfica, un bel posto per gli studenti e per i giovani in generale, dove ancora oggi è molto diffusa la pratica degli sport all’aperto vista la grande disponibilità di parchi e piste ciclabili. Per ampliare le attività a disposizione, il Grupo si fonde con un’altra associazione locale, nata due anni prima, lo Sport Lisboa: nasce così lo Sport Lisboa e Benfica, denominazione usata tuttora, che ha un’aquila come effigie e il cui motto è la locuzione latina et pluribus unum, un inno all’integrazione che gli intellettuali americani di inizio 800 presero dal Moretum di Virgilio, che descriveva come la miscelazione di tanti colori diventasse alla fine un colore solo.
Dalle colonie arriva una perla
Il popolo portoghese, in fin dei conti, ha tanto in comune con quello americano. Stesso patriottismo in stile anglosassone, spiccato senso degli affari e il pallino espansionistico hanno fatto sì che l’Impero portoghese (il primo e uno dei più longevi imperi coloniali al mondo) pescasse un po’ di qua e un po’ di la alla ricerca di materie prime, vie del commercio e, soprattutto, surplus di manodopera. Essendo bloccati a est dalla Spagna, non poterono far altro che conquistare le terre d’Oltremare. Una piccola chicca partenopea: la Mostra d’Oltremare, che si trova di fianco allo stadio San Paolo, prende il nome proprio dall’esposizione periodica di prodotti provenienti dalle colonie, politica attuata dal regime fascista italiano come da quello imperiale portoghese.
La colonia portoghese più grande e famosa, ovviamente, fu il Brasile, che si rese indipendente nel 1822, ma molte furono le conquiste e le scoperte anche a est e a sud: i grandi navigatori lusitani circumnavigarono l’Africa, arrivando a mettere piede fino in medioriente. Bartolomeo Diaz doppiò il Capo di Buona Speranza, Vasco da Gama raggiunse l’India, mentre Pedro Álvares Cabral scoprì il Madagascar. Proprio di fronte a quell’isola sorge un piccolo stato, il Mozambico. Quando nel secondo dopoguerra il calcio diventa uno sport di massa, dalle colonie iniziano a sbarcare anche i migliori talenti dei tornei locali, tra i quali le squadre scelgono i più bravi da mandare in Nazionale, ovviamente portoghese.
Nelle colonie funzionava così: ogni squadra portoghese fondava una società satellite, una sorta di serbatoio da cui attingere in caso di bisogno. In Mozambico, ad esempio, c’era lo Sporting Clube de Lourenço Marques, una società affiliata allo Sporting Lisbona, eterni rivali del Benfica. Lì giocava un ragazzo molto promettente, attaccante, veloce e con un tiro potente. Se si fosse dimostrato bravo, avrebbe potuto indossare la maglia biancoverde, ma il destino volle che fosse rosso il colore della sua vita.
Nell’estate del 1960 l’ex calciatore della Nazionale brasiliana Jose Carlos Bauer nota quel ragazzino giocare in patria. Ne resta incantato. Ne parla col suo vecchio club, il Sao Paulo, che però declina l’offerta. La seconda telefonata è al suo ex allenatore proprio al club paulista, che nel 1960 allena il Benfica. Si chiama Bela Guttman, è un perfezionista, con lui quel ragazzino farebbe faville. I due parlano, si confrontano, si fidano l’uno dell’altro. Sanno che strappando un giocatore allo Sporting si rischia l’incidente diplomatico. Ma loro ci provano, lo portano via da Lourenço Marques (l’attuale Maputo) in tutta fretta, non ne rivelano la destinazione nè l’identità perchè ne temono il sequestro. Solo in un secondo momento Guttman chiederà a Bauer: “Non mi hai nemmeno detto chi devo aspettare. Come si chiama il ragazzo?”, e Bauer: “Hai ragione. Il ragazzo si chiama Eusebio da Silva Ferreira, ma qui tutti lo chiamano solo Eusebio”.
Era l’anno dei mondiali, quelli del ‘66
Eusebio col Benfica vince tutto. Dieci titoli del Portogallo, cinque coppe nazionali, una Coppa dei Campioni. A livello individuale, in quindici campionati disputati con la maglia delle Aquile è sette volte capocannoniere, due volte miglior realizzatore in Coppa campioni, due volte Scarpa d’oro e, nel 1965, Pallone d’oro davanti agli interisti Facchetti e Suarez, reduci dal filotto campionato, Coppa Campioni (battendo in finale proprio il Benfica) e Intercontinentale. Non basterebbe un libro di matematica per spiegare con i numeri la forza di Eusebio, basti tenere a mente che con la maglia del Benfica ha segnato 473 gol in 439 presenze, una media di 1,08 gol a partita. Per quindici anni di fila.
Nell’estate del 1966 il centro del mondo è Liverpool. Ad agosto uscirà Revolver dei Beatles, un album che riscriverà la storia della musica con un tratto indelebile. Un mese prima, e siamo al 15 luglio, si gioca Portogallo – Brasile. E’ l’ultima giornata del Gruppo 3 di quel campionato mondiale, dall’altra parte ci sono l’Ungheria e la già eliminata Bulgaria: chi vince va ai quarti, chi perde rischia seriamente di tornare a casa. Per le due nazionali è in gioco la qualificazione, per il resto del mondo è Pelé contro Eusebio. Il Portogallo vince 3-1, la Pantera Negra segna una doppietta mentre O Rei resta a guardare, anzi, a prendere calci, visto che difensori e mediani rossoverdi lo prendono di mira ogni volta che ha la palla tra i piedi. Nell’ultimo contrasto, a risultato già acquisito per la nazionale allenata da Otto Glòria (peraltro brasiliano di Rio), un calcione di un difensore portoghese fa letteralmente andare per aria Pelé, uno di quei falli per i quali oggi si invoca il rosso diretto. Eusebio corre verso il numero dieci brasiliano, si assicura che sia tutto a posto, e con una dolcezza estrema gli accarezza la testa, porgendogli la mano per farlo rialzare.
Brasile eliminato, Portogallo alla fase successiva. Eusebio e compagni una settimana dopo, ancora ad Anfield, devono vedersela con la Corea del Nord, che nel Gruppo 4 ha fatto fuori l’Italia con un gol del tristemente celebre Pak Doo Ik. Ebbene, al 25’ del primo tempo il riultato dice 0 a 3 per i nordcoreani, che in Inghilterra non dovevano nemmeno andarci nonostante avessero vinto il girone di qualificazione. Dal 1953 infatti, anno in cui la Guerra di Corea si concluse con la scissione della piccola penisola asiatica, erano stati interrotti i rapporti diplomatici con la dittatura del nord da parte delle autorità inglesi, le quali durante il conflitto sostennero l’unità nazionale. Far sbarcare la delegazione nordcoreana a Middlesbrough, sede delle gare del Gruppo 4, fu già di per sè un’impresa. Spostare di nuovo tutti in direzione Merseyside ebbe i tratti dell’odissea. Il cerchio del destino si chiuse quando i nordcoreani, sotto dittatura marxista quindi “atei di Stato”, furono ospitati in un convento di gesuiti, ritiro peraltro prenotato dalla religiosissima comitiva italiana in un’ottimistica previsione di passaggio del turno. Chissà come l’avranno presa in Vaticano.
Ma torniamo in campo: Eusebio non ci sta. Va a prendere palla direttamente dalle mani del portiere, inizia a giocare praticamente a tutto campo: dal 27’ al 59’ (32 minuti, trentadue!) mette dentro quattro volte, di cui una su rigore da lui stesso procurato. Il 5-3 finale arriva con un colpo di testa di Torres direttamente da calcio d’angolo: non ci vuole molta fantasia per intuire chi lo avesse battuto. L’avventura di quel Portogallo termina in semifinale, ad opera dei padroni di casa guidati da un’altra leggenda, quel Bobby Charlton che pochi giorni dopo alzerà la coppa sotto gli occhi della Regina. Eusebio si accontenterà del terzo posto, con l’ultimo gol segnato all’URSS nella finalina.
Una maledetta finale
Quattro anni prima dei mondiali albionici, il Benfica aveva vinto la sua seconda Coppa dei Campioni. Merito di Eusebio, certo, di altri calciatori leggendari come Mario Coluna e del capitano Jose Aguas. Quel Benfica, tuttavia, in panchina aveva Bela Guttman, quello che si era fatto mandare Eusebio dal Mozambico. Un allenatore pragmatico, vincente fino al midollo, che da semplice ebreo di origine austro-ungherese aveva vissuto da vicino l’olocausto e la seconda guerra mondiale (durante la quale perse un fratello), oltre alla rivolta popolare anti sovietica, messa in atto in Ungheria nel ’56 e sedata con una mattanza ordinata da Krusciov. Il dittatore diede la precisa direttiva ai carri dell’Armata Rossa di schiacciare letteralmente i dissidenti. L’eventò che però lo segnò di più fu la grande depressione americana del ’29. Da calciatore Guttman giocò a New York, ma la sua smodata passione per le speculazioni a Wall Street lo portò a perdere diverse decine di migliaia di dollari. Fu così che si concentrò solo sul suo lavoro di sportivo, imponendosi di chiedere sempre un aumento di stipendio al raggiungimento di determinati risultati.
Il risultato arrivò, e che risultato. Il suo Benfica rifilò cinque gol niente meno che al Real Madrid di Puskas e Di Stefano. Lo stesso Real Madrid, presieduto da Santiago Bernabeu, appena dodici mesi prima aveva alzato la quinta Coppa Campioni consecutiva. Tuttavia, nessun festeggiamento fu riservato a Eusebio e compagni da parte della società e due giorni dopo, alla ripresa degli allenamenti, Bela Guttman trovò nel suo armadietto una lettera di licenziamento. La società gli rinfacciava di aver preteso il premio in denaro per la vittoria della coppa, comportamento ritenuto non adeguato, soprattutto perchè in campionato la squadra era finita terza. Perdipiù il titolo era stato vinto dagli odiati rivali dello Sporting, in quella situazione era inaccettabile chiedere soldi.
Guttman si arrabbiò parecchio, ma non si scompose. Raccolse le sue cose, si diresse verso l’uscita, ma prima di varcare il portone dell’Estadio da Luz pronunciò una frase: “Me ne vado per sempre, ma d’ora in avanti il Benfica non vincerà una coppa internazionale per almeno 100 anni”. Detto, fatto: ad oggi ne sono passati “appena” 54 e il Benfica non solo non ha più vinto fuori dai confini nazionali, ma ha perso ben otto finali, l’ultima delle quali nel 2014 contro il Siviglia in Europa League. Ironia della sorte, il portiere degli andalusi allenati da Unay Emery in quella finale era Beto, portoghese, cresciuto nel vivaio dello Sporting. Mettiamola così, se nei prossimi 46 anni il Napoli dovesse giocare una finale europea contro il Benfica ci sarebbe una sfida nella sfida: la maledizione di Bela Guttman contro la scaramanzia napoletana.