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Real Madrid: la storia, il mito, la leggenda

Dici Real Madrid e ti viene in mente la storia: i più grandi giocatori di ogni tempo hanno calcato il prato del Santiago Bernabeu. Dici Real Madrid e ti viene in mente proprio il suo stadio, uno spaventoso corpo unico in grado di contenere 85 mila spettatori e che si eleva a quasi 50 metri da terra, qualcosa tipo un palazzo di 15 piani. Dici Real Madrid, in una sola parola, e ti viene in mente il calcio. 32 titoli di Spagna, 19 coppe nazionali e 9 Supercoppe di Spagna. 11 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Uefa, 3 Supercoppe europee e 5 tra Intercontinentali e Mondiali per club. A ragion veduta, il club più titolato al mondo.

Il Clasico, non una semplice partita di calcio

Madrid e Barcellona: città, culture e modo di intendere il calcio agli antipodi. Quando le due squadre scendono in campo c’è una sola parola per descrivere il significato che questa partita si porta dietro: il Clasico. Non è un derby, perché non parliamo di squadre della stessa città, né della stessa regione. Non assegna titoli, anche se negli anni ha decretato tanti verdetti. Il Clasico è una partita a parte, ha una storia autonoma, aliena rispetto alle competizioni “sottostanti”. Esiste addirittura una sorta di albo d’oro non ufficiale, ad oggi in equilibrio quasi perfetto.

Il primo match tra Barça e Real, in amichevole, andò in scena nel 1902: finì 3-1 per i catalani, ma per vivere emozioni forti bisogna aspettare le gare numero 56 e 57. Siamo nel 1943, in piena dittatura franchista, e per la Copa de Espana (l’attuale Copa del Rey), in quegli anni rinominata Copa del Generalísimo appunto in onore di Franco, va in scena il ritorno della semifinale tra Blancos e Blaugrana. All’andata i catalani si erano imposti con un netto 3-0, ovvio che la trasferta di Madrid era vista alla stregua di una gita di piacere. E invece…

Invece all’Estadio de Chamartìn di Madrid (poi ribattezzato Santiago Bernabeu) va in scena l’inverosimile. La leggenda narra che i calciatori del Barcellona furono accolti negli spogliatoi niente meno che dal capo della Sicurezza di Stato, una sorta di braccio destro del dittatore. Non usò minacce esplicite nei confronti dei giovani malcapitati, ma ci tenne a far capire loro quanto sarebbe stato pericoloso uscire vittoriosi da quella sfida. Risultato: 11 a 1 per il Madrid, otto a zero solo nel primo tempo. Le cronache raccontato addirittura che il portiere del Barcellona, Luìs Mirò (che da allenatore guidò anche la Roma), per larghi tratti era lontano dalla sua area di rigore perchè intimorito dai tifosi alle sue spalle. Il presidente dei catalani Enrique Piñeyro Queralt, fervente franchista, al termine della partita si dimise e manifestò profonda delusione nei confronti del regime che con tanta forza sosteneva.

Tuttavia quella coppa non fu vinta dalle merengues, ma dall’Athletic Bilbao. La partita si giocò a Madrid, ma nello stadio dell’Atletico. I baschi vinsero ai supplementari con un gol di Telmo Zarra, un attaccante che in 15 anni in maglia biancorossa vinse sei volte il titolo di capocannoniere, uno di cui Emilio Butragueno disse “Todo el mundo que haya vivido el fútbol ha crecido con el mítico nombre de Zarra”. Ma questa, evidentemente, è un’altra storia.

Alfredo Di Stefano, la saeta rubia

Alla fine della prima guerra mondiale, tanti italiani emigrarono verso il nuovo continente per cercare fortuna oltreoceano. C’è chi si stabilì negli Stati Uniti, chi in Sudamerica. Una delle rotte marine più battute fu quella che puntava verso il porto di Buenos Aires. All’alba degli anni venti, su una di quelle navi c’è Alfredo Di Stefano, di origine siciliana, che pochi anni dopo, nel 1926, sposa una ragazza franco irlandese che dà alla luce il piccolo Alfredo. Fin dai primi anni di vita, Di Stefano mostra una grande passione per il calcio, ma soprattutto enormi doti tecniche. E’ un centravanti che ha la corsa di un’ala e il piede di un numero dieci. Da subito si sprecano i soprannomi, tanto cari ai sudamericani, ma quello che resterà nella storia è la saeta rubia, il fulmine biondo. A soli 15 anni è messo sotto contratto dal River Plate, da sempre uno dei club più prestigiosi d’Argentina nonché enorme fucina di talenti. Poi l’Huracan, sempre a Buenos Aires, poi ancora River, dove si consacra segnando 53 gol in poco più di 70 presenze. Complice uno sciopero dei calciatori argentini, nel 1949 si trasferisce in Colombia, ai Millionarios, dove resta fino al 1953.

Quell’estate i colombiani giocarono qualche partita amichevole in Europa. Durante una di quelle esibizioni fu invitato in tribuna il presidente del Real, Santiago Bernabeu: fu amore a prima vista. Ma come nelle più grandi storie d’amore, il patron blanco non era l’unico ad aver messo gli occhi sul talento italo argentino. Anche Martì, il suo collega del Barcellona, era intenzionato ad accaparrarsi Di Stefano. Ecco quindi che torna sulla scena il Generale Franco, il quale dirime la controversia decidendo di far giocare il ragazzo con entrambe le squadre, un anno a testa. Bernabeu accetta, Martì no e per protesta abbandona la trattativa: uno dei più grandi attaccanti di tutti i tempi si accasa a Madrid.

Di Stefano indossa la camiseta blanca per undici campionati, durante i quali vincerà il titolo otto volte, in cinque occasioni sarà capocannoniere, ma il record che ancor oggi detiene, insieme a quella gloriosa squadra, sono le cinque Coppe dei Campioni consecutive conquistate tra il 1956 e il 1960. Sotto i colpi di quell’armata invincibile, che ebbe in Jose Villalonga un grande maestro di calcio, caddero rispettivamente lo Stade Reims (4-3), la Fiorentina (2-0), il Milan (3-2), di nuovo lo Stade Reims (2-0) e l’Eintracht Francoforte (7-3, con tripletta di Di Stefano e poker di Puskas). In questo quinquennio, la Saeta Rubia alzerà anche due volte il pallone d’oro. Aveva un valore inestimabile Di Stefano, di molto sopra i trent’anni il Real lo valutava oltre il miliardo di Lire. Quando, nel 1962, alla Juve arrivò Luis del Sol, che giocava da rifinitore dietro quell’attacco fenomenale, da subito divenne famosa la battuta “ha portato la valigia di Di Stefano”.

About author

Paolo Esposito è laureato in Economia Aziendale. Per lavoro si occupa di tax auditing con particolare attenzione al transfer pricing, al financial accounting e alle business restructuring. Tuttavia crede che di calcio sia meglio parlare in napoletano.
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