Partiamo da una premessa: il campionato è finito. I giochi per lo scudetto sono fatti da tempo, quelli per la Champions e (quasi) per l’Europa League pure, mentre per la retrocessione è questione di poco. Ovvio che in un contesto così desolante già prima di Pasqua – ma potremmo dire anche Natale – si cerchi qualche spunto di riflessione per ravvivare le conversazioni tra tifosi. Una volta tanto, vivaddio, i network televisivi mettono bene a fuoco l’obiettivo, creando una sorta di dualismo tra Allegri e Sarri. Vincente il primo, gregario il secondo. Pragmatico lo juventino, spettacolare il napoletano. Uno è ossessionato dal risultato, l’altro dalla qualità del gioco.
Max Allegri non usa mezzi termini quando qualcuno gli fa notare che la sua Juve vince pur giocando male: “il calcio è semplice, c’è una fase offensiva e una difensiva, bisogna farle bene tutte e due. Chi vuole lo spettacolo vada al circo, qui bisogna vincere”. I più attenti ricorderanno anche che dopo il pareggio tra Napoli e Juve nell’ultimo turno di campionato, lo stesso allenatore livornese a domande dello stesso tenore rispose chiedendo: “se a fine anno vinco lo scudetto, chi ricorderà che ho giocato male a Napoli?”.
Di tutt’altro tono i commenti del mister azzurro, a margine della netta vittoria a Roma contro la Lazio. Ai microfoni di Sky, Sarri viene incalzato dalla solita domanda sul baratto tra bel gioco e vittoria finale: “ma perchè, se mi rompo i c…i poi vinco?”, replica ridacchiando il tecnico, che chiosa: “guardate che anche io in panchina mi voglio divertire, mica solo i ragazzi in campo!”.
La querelle mediatica è legittima, ma è posta nel modo sbagliato. Non è vero che chi gioca male vince e chi offre uno spettacolo esaltante poi resta al palo. Meglio ancora, non è sempre vero ciò: il paradigma “brutti ma vincenti” è un retaggio quasi esclusivamente nostrano. Purtroppo in Italia siamo abituati male, da sempre, perché gli esempi che vengono dal passato vanno quasi sempre in questa direzione. Si pensi alla Juve di Trapattoni, a quella di Lippi e infine a quella di oggi, guidata prima da Conte, poi da Allegri. Tre cicli vincenti, qualcosa come 15 scudetti, un unico comune denominatore: il gioco “all’italiana”. Nessuna concessione allo spettacolo, estrema fisicità e capacità di raggiungere il massimo risultato col minimo scarto.
Il Napoli, in serie A, ricopre da sempre un ruolo da comprimaria di lusso, una sorta di mina vagante che talvolta si toglie qualche soddisfazione. Prima dell’ottimo ciclo attuale e dell’epoca di Maradona, qualcosa si era visto con Vinicio in panchina. Il tecnico di Belo Horizonte, il primo a portare in Italia il calcio totale di Rinus Michels, in tre anni ottenne un secondo e un terzo posto, oltre a vincere la Coppa Italia. Ma evidentemente fu un esempio isolato: da un lato ‘o lione non mantenne le buone promesse di inizio carriera, dall’altro il nostro paese non seppe cogliere l’occasione per rinnovarsi nella mentalità. Esempi come quello di Arrigo Sacchi, che più di tutti seppe coniugare modernità e vittorie, restano capitoli a parte nella storia calcistica tricolore. Chi volle seguire quelle orme, da Marchioro a Maifredi, fino a Orrico, con passaggio obbligato da Zemanlandia, non è stato altrettanto fortunato.
Eppure altrove non è così. Più che soffermarsi sulle squadre, o sulle idee che i presidenti hanno durante la costruzione della rosa, è il caso di parlare di allenatori. Partiamo da Guardiola, uno che ha assimilato talmente bene le lezioni impartitegli dal suo maestro Johan Cruyff da esportarle con successo anche fuori dalla culla di Barcellona, laddove la creatura olandese di nascita emise i primi vagiti. Oggi quella culla è vuota, perché il bimbo blau-grana è diventato adulto, il suo tutore è Luis Enrique.
Facciamo un passo indietro nel tempo e fermiamoci a Manchester. Sir Alex Ferguson non ha bisogno di essere celebrato, ma di lui va doverosamente detto che non solo il suo United giocava in modo tremendamente spettacolare e rivoluzionario rispetto agli standard dell’epoca in Premier, ma anche che vincere non significa per forza puntare su costosi campioni, solo perché abituati a lottare per certi traguardi. Talvolta i campioni si possono costruire in casa, lavorando sulla tecnica ma anche sulla mentalità. E’ il caso di oltre settanta sconosciuti giovanotti, che grazie a Fergie sono entrati nella leggenda.
E poi c’è Carlo Ancelotti, l’allenatore più titolato al mondo con i suoi sette trofei internazionali, l’unico nella storia, insieme a Bob Paisley, ad aver alzato tre volte la Coppa dei Campioni. Da italiano e da italianista moderno, oggi Carletto per la Serie A è semplicemente fuori portata.
In definitiva, Allegri ha dalla sua i risultati, indiscutibili, oltre ad una dialettica dettata dalla policy imposta dalla famiglia Agnelli secondo cui vincere è l’unica cosa che conta. Ma il modo in cui si vince non è sempre uguale per tutti: fa bene Sarri ad insistere sulla sua idea di calcio, fatta di scambi veloci, pressing a tutto campo e ritmi alti. Fa bene anche a ricordare che a Empoli più volte gli è stato detto di giocare troppo bene per essere una squadra in lotta per la salvezza. Eppure quell’Empoli si salvò con largo anticipo, chiudendo a +8 sulla terz’ultima. Ogni tanto qualche eccezione in vetta si vede anche dalle nostre parti, chissà che in futuro non possa essere toscana a tinte azzurre.