Giocasse in Sudamerica, negli ultimi due anni il Napoli avrebbe vinto un Torneo di Apertura e uno di Clausura. Campioni d’inverno l’anno scorso, in questa stagione gli azzurri hanno vissuto un girone di ritorno semplicemente perfetto: 48 punti frutto di 15 vittorie e 3 pareggi. Cinquantadue gol fatti, solo dieci in meno di quanti ne ha fatti la sorprendente Atalanta in tutto il campionato.
Ancor più significativo il dato riguardante gli ultimi tre mesi di campionato. Il 25 febbraio andò in scena Napoli – Atalanta, che finì 0-2: è l’ultima sconfitta degli azzurri. Da allora, su 12 partite giocate, il Napoli ne ha vinte 10 e pareggiate 2, segnando 34 gol e subendone 10. La vetta non è mai stata così vicina: dall’inizio del super-ciclo bianconero, infatti, è la prima volta che il Napoli termina a cinque lunghezze dai campioni d’Italia.
A campionato appena concluso, e a mercato iniziato da poche ore, è quindi nato lo slogan “l’anno prossimo sarà quello buono”. Già ad occhio nudo questa frase è ampiamente opinabile perchè la somma di due “mezzi scudetti” non fa vincere un titolo vero. Sul piano dialettico, inoltre, è una media aritmetica tra il verosimile “ridurre il distacco dalla testa equivale ad essere competitivi”, il sognante “da tifosi non possiamo evitare di farci almeno un pensierino” e il sarcastico “anche oggi si vince domani”.
L’aspetto più deleterio della questione, tuttavia, è un altro. Basta un attimo e si passa da quello slogan al molto simile “l’anno prossimo DEVE ESSERE quello buono”. Letto superficialmente suona persino uguale, ma la differenza è netta. L’innegabile accresciuta competitività della banda di Sarri ai massimi livelli deve avere i contorni del sogno, non dell’obbligo contrattuale. Così non va, per niente, quindi meglio mettere un punto e fare un passo indietro.
Quante volte in questi mesi è comparsa in diverse salse la domanda su cosa serva a questo Napoli per vincere? Tante, troppe. Ma per vincere non c’è bisogno solo di soldi, di dirigenti bravi a scegliere i giocatori migliori e allenatori adatti a farli rendere al meglio. Uno degli aspetti determinanti per la vittoria finale è l’abitudine a vincere.
Prendiamo Higuaìn: l’anno scorso crollò sul più bello, inscenando una plateale protesta in quel di Udine nei confronti dell’arbitro. Protesta che gli valse il rosso e quattro giornate di squalifica, poi ridotte a tre. In quanti episodi del genere è stato coinvolto quest’anno il Pipita? Zero, così come zero sono i momenti in cui la squadra e la società bianconera hanno mostrato i chiari segni di chi perde il controllo della situazione. E’ una questione di consapevolezza.
Ma la consapevolezza, ad onor del vero, si conquista anche con una pressione mediatica controllata. La Juve, per dire, gode di un trattamento generalmente morbido da parte di tv, web e giornali. Una morbidezza che non è quasi mai riconosciuta al Napoli (e a Napoli in generale, ma quella è un’altra storia). Alcuni esempi sono emblematici, come il cambio in panchina da Benitez a Sarri, visto come un ridimensionamento. Oppure come la cessione dello stesso Higuaìn, che al pari di quella di Cavani tre anni prima era considerata un’autostrada a sei corsie verso il baratro. Eppure, nonostante tutto, il Napoli è ancora lì.
Creare in futuro aspettative ancora maggiori significa alzare l’asticella in termini di obiettivi minimi, al di sotto dei quali scatta il segno meno. Quest’anno, è bene ricordarlo, a parte la madre di tutte le cessioni il Napoli ha dovuto fronteggiare gli infortuni di Milik e Albiol, la Coppa d’Africa per Ghoulam e Koulibaly, le precarie condizioni fisiche di Tonelli e Maksimovic, per non parlare del graduale e non sempre fruttuoso inserimento dei vari Diawara, Rog, Pavoletti e Giaccherini.
Ciononostante, il Napoli ha battuto il record personale di punti in campionato e di gol fatti, ha vinto il suo girone di Champions e ha stabilito il record assoluto in serie A di gol segnati in trasferta, detenuto dalla Juve degli anni ’50. Tutti risultati ottenuti, senza voler essere ripetitivi, giocando un calcio meraviglioso.
L’anno prossimo tutto ciò non sarà più sufficiente. Ferme restando le trame di gioco, ormai marchio di fabbrica di Maurizio Sarri, basterà replicare i risultati entusiasmanti di quest’anno perché a destra e a manca si urli al fallimento e alla delusione.
Ma attenzione, ciò non vuol dire che gli azzurri saranno attesi al varco per dieci mesi e la loro impresa (come accaduto quest’anno) sminuita a giochi fatti: alla prima sconfitta, magari contro una grande d’Europa, si scriverà e si parlerà di giocattolo rotto, di spogliatoio spaccato e di cessioni dietro l’angolo. Appare quasi un paradosso, ma le grandi aspettative e l’obbligo di vincere imposti dai media saranno essi stessi un presupposto per il fallimento.
Per questo, e in netto anticipo, noi del Partenopeo vogliamo rivolgere un appello ai tifosi del Napoli: godete al massimo di ciò che state vedendo in campo perché nulla ci è dovuto e non sappiamo quanto durerà. Petrarca diceva “cosa bella e mortal passa e non dura”. Non roviniamo tutto per la smania di vincere perché da noi, a differenza che altrove, vincere è bellissimo, non è l’unica cosa che conta.