La riduzione in appello della condanna inflitta in primo grado a Daniele De Santis si porta appresso non pochi strascichi di polemica. Una premessa è doverosa alla riflessione che segue: escludiamo a priori dal discorso il povero Ciro, ennesima vittima di una meravigliosa passione. Ed escludiamo anche la (ancor più) povera signora Antonella, già condannata ad un “ergastolo morale” per aver perso il figlio, degna di lode per la silenziosa battaglia che ormai da tre anni porta avanti contro il clima violento che si vive negli stadi italiani.
La nostra analisi, puramente empirica in quanto basata su osservazioni dirette, si vuole invece soffermare sulla retorica e sul sistema. La retorica, intesa come arte del parlare in pubblico, discute del sistema, cui si contrappone, sottoponendolo a giudizio. Un rapporto univoco, profondo, inscindibile, che vede quali attori principali cittadini comuni. Medici, muratori, commercianti, ingegneri, politici: non fanno distinzione il titolo di studio, il lavoro svolto, il conto in banca. L’importante è parlare, parlare tanto, parlare sempre, preferibilmente di argomenti di cui non si ha conoscenza di base.
La riduzione della condanna a De Santis è motivata, secondo la prima Corte d’assise d’appello di Roma, dall’assoluzione dal reato di rissa (attribuito invece in primo grado), nonché dall’esclusione dell’aggravante dei futili motivi e della recidiva. Con ciò fa il paio l’assoluzione di Gennaro Fioretti e Alfonso Esposito, inizialmente condannati a otto mesi per le lesioni cagionate a De Santis. Nei confronti dell’ultras romanista viene comunque confermato l’impianto accusatorio di partenza (l’omicidio e non la legittima difesa chiesta dai suoi avvocati). Sedici anni di carcere De Santis deve farseli.
E invece no. A leggere i commenti di sponda napoletana, attraverso social network e testimonianze dirette, pare quasi che De Santis sia stato assolto. Qualcuno si spinge oltre, ipotizzando che tra ulteriori riduzioni di pena, buona condotta e l’influenza di qualche amico importante, fra un paio di settimane l’assassino di Ciro sarà già a casa. Il coro è unanime da questa parte del Garigliano: ingiustizia è la parola più utilizzata. Si va dalla solita “vergogna di essere italiani” al “questa è l’Italia”, passando dagli immancabili attacchi ai magistrati, rei di rappresentare (male) un sistema paese allo sfascio.
Ma cosa avrebbero detto i nostri se per puro caso fosse stato Ciro ad uccidere De Santis? Non è difficile immaginarlo: basta immergersi un attimo nei meandri della “parte avversa” per scoprire che nelle ore immediatamente precedenti la lettura della sentenza qualcuno ha attaccato adesivi con l’indegna scritta “Tutti in giro tranne Ciro”. E’ una questione di campanile.
Retorica e sistema: un rapporto a senso unico, perché il secondo è sottoposto al giudizio della prima. Il sistema, sul piano dialettico, non può difendersi e come la gazzella della famosa leggenda narrata da Shakespeare, ogni mattina si sveglia e sa che dovrà correre veloce. Ma a volte correre veloce non basta, non va bene, non è sufficiente.
Perché se un giudice impiega circa 40 anni per venire a capo della strage di piazza della Loggia (otto morti) lo Stato è troppo lento. Se ne impiega tre e condanna in appello un assassino è troppo frettoloso e la pena troppo blanda. In tutti e due i casi il comune denominatore è che il sistema fa schifo.
Ma chi è il sistema? Lo Stato è un’entità immateriale, di per sé non esiste. E’ formato dalle persone che ne fanno parte, che popolano il suo territorio, che lavorano, studiano e governano. Lo Stato è Giancarlo De Cataldo, presidente della tanto vituperata Corte d’appello di Roma. Più di un magistrato: un patrimonio nazionale. De Cataldo è uno che il crimine lo conosce bene, perché lo combatte da magistrato e lo racconta nei suoi libri, in diverse sfaccettature.
Peraltro, prima dei best sellers Romanzo criminale, Suburra e La notte di Roma, De Cataldo aveva scritto un delizioso affresco sui pregiudizi (reciproci) esistenti tra nord e sud. Il titolo era emblematico: Terroni, da non confondere con l’omonimo libro di Pino Aprile. L’autore immaginava un’utopistica globalizzazione, attraverso la quale il nebbione padano era riscaldato dallo scirocco salentino.
De Cataldo è il sistema, rappresentante di uno Stato oggetto di critiche e denigrazione da parte dei suoi abitanti. Ma non dimentichino, gli abitanti, che sono anch’essi sistema. E se in esso ci fossero più Giancarlo De Cataldo, ne siamo certi, in giro ci sarebbero meno Daniele De Santis.