Leggere ad uno ad uno i nomi dei giocatori del Manchester City, appurarne il valore di mercato e fare una sommatoria complessiva è un esercizio che può provocare il mal di testa. L’ultima stima parla di circa 630 milioni di Euro in valore dei cartellini, mentre il monte ingaggi, ormai prossimo ai 280 milioni, proietta la squadra di Guardiola sul podio delle più ricche al mondo.
Ciononostante, il palmares dei citizens è abbastanza scarno, annoverando solo 4 titoli inglesi, altrettante coppe di lega e Community Shield (la Supercoppa d’oltremanica), oltre a 5 FA Cup. Una sola volta il club di Manchester ha trionfato in Europa, in epoca ampiamente precedente rispetto alla gestione araba. Non parliamo della Champions, bensì della gloriosa Coppa delle Coppe, edizione 1969/70, la cui finale si disputò, ironia della sorte, poche settimane prima della nascita dell’attuale proprietario, lo sceicco Mansur bin Zayd Al Nahyan.
Nell’aprile del 1970, in un Prater di Vienna travolto dalla pioggia e davanti a meno di ottomila spettatori (per motivi di sicurezza), si sfidarono la parte azzurra di Manchester e il Górnik Zabrze. La formazione polacca in semifinale aveva eliminato la Roma dopo tre pareggi, andata, ritorno e spareggio in campo neutro a Strasburgo. In gare a eliminazione diretta, all’epoca, non esisteva ancora la regola di calciare i rigori per assegnare la vittoria, pertanto solo il lancio della monetina sancì la qualificazione.
Quel Manchester era l’unione di diversi fattori, primo tra tutti la politica societaria. Nulla che somigli all’odierno sperpero di denaro proveniente da fonti sovrane: quella squadra era costruita sull’ossatura del vivaio. Altra solida colonna sulla quale poggiava quell’impresa era Joe Mercer, allenatore chiamato nel 1965 per risalire dalla seconda divisione. Mercer ci riuscì subito e negli anni a venire aggiunse molto altro, fino al suo addio nel 1972, tant’è che quel periodo fu per sempre indicato come l’età della gloria.
Dopo un quindicesimo posto di assestamento, i citizens piazzano in rapida sequenza un titolo nazionale (1967/68), un Charity Shield e una FA Cup (1968/69), una Coppa di Lega e, come detto, la Coppa delle Coppe (1969/70). Si tratta del ciclo vincente più lungo della storia del City dalla fondazione del 1894 fino all’avvento di Mansur.
Ma quel 2-1, grazie al quale Mercer e i suoi poterono alzare il primo e finora unico trofeo internazionale, girava soprattutto intorno alla completezza della rosa. In porta c’era Joe Corrigan, quasi 600 gare tra i pali di Manchester. Al centro della difesa giostrava Glyn Pardoe, un controsenso vivente: nato attaccante, arretrò fino in terza linea, era destro ma giocava a sinistra, Pardoe esordì a 16 anni in maglia celeste e non la tolse più fino ai 30, momento in cui decise di smettere per le troppe ricadute di un tremendo infortunio patito nel 1970. Ma la dirigenza non lo lasciò per strada, offrendogli un contratto da dirigente che durò fino al 1992.
Poi c’era Tony Book, il capitano, anche per lui oltre 300 presenze col City. In seguito al suo ritiro, Book siederà su quella panchina in veste di manager in ben cinque periodi diversi. Il rapido Neil Young, omonimo del cantautore canadese, fu invece uno dei marcatori della finale. L’altro gol lo segnò Francis Lee, che formava una coppia d’attacco esplosiva insieme all’altra punta Colin Bell. Ma non esiste torta senza la sua ciliegina, e la ciliegina sulla light blue cake si chiamava Mike Summerbee.
Preso a soli 23 anni dallo Swindon, Summerbee era una sorta di George Best in versione City. Estroso, sfrontato, amante dei dribbling ma altruista come pochi, il talento nato a Preston amava farsi ammirare soprattutto per le sue bizzarre trovate durante le pause di gioco.
Se pensava che un avversario simulasse un infortunio, correva a massaggiarlo in modo plateale. Se un arbitro fischiava in modo discutibile non esitava ad inscenare battibecchi ai limiti del grottesco. Il culmine lo toccò durante una partita, prima di battere una rimessa laterale: approfittò della distrazione di un agente di polizia di guardia a bordo campo e gli sfilò il caschetto. Giocò indossando il copricapo per qualche minuto, prima di restituirlo tra le risate e gli applausi della folla.