Sarebbe troppo semplicistico limitarsi a fare i complimenti ad una squadra di calcio che ha fatto sognare i propri tifosi. Sarebbe riduttivo limitarsi a fare i complimenti a dei ragazzi che hanno superato se stessi.
Paradossale? No, niente affatto. Non basta questo. Stavolta no. E non perchè non si tratti di una verità insindacabile che inorgoglisce fino al midollo.
Stavolta è diverso. Non si parla più di calcio, di un pallone che ha varcato o meno la linea di porta o di una spettacolare parata. Stavolta si parla di sentimenti.
E quelli che aleggiano nell’atmosfera napoletana sono sentimenti mortificati, sono sogni distrutti, sono cazzotti alla felicità.
Il disincanto che è piombato con una violenza inaudita sulle anime partenopee non è solo qualcosa che fa male, molto male, ma soprattutto qualcosa che impone una profonda rivendicazione.
Una cosa dobbiamo mettercela nella testa, tutti: smettiamola di parlare di sport, il calcio non lo è. Non lo è per la mole di danaro che muove, non lo è per lo spirito bieco e astioso che anima i suoi seguaci.
E forse è proprio questo il motivo del suo grande successo, per molti incarna il ruolo di sfogatoio prediletto per una società frustrata.
Lo scenario è triste assai: Un essere umano viene costantemente mortificato da eventi negativi che reputa anche frutto di congetture e non se ne sottrae per necessità.
E’ questa la lettura corretta?
Forse si. Per molti si, forse non per tutti. Ma mettiamo subito un punto alla discussione, non vogliamo cavalcare l’onda di una lettura pedagogica del fenomeno. Almeno – però – togliamoci le bende dagli occhi e osserviamo la cosa per quella che è.
Non si tratta di nulla di cui vergognarsi. Le dipendenze fanno parte della vita. Il punto è un altro.
Quando ti accorgi che piangi se la tua terra emerge e si impone, quella stessa terra che tu quotidianamente ti sforzi di risollevare dalla melma nella quale il mondo cerca ripetutamente di affogarla, dai una carezza alla felicità.
Quando ti accorgi che questa passione, questa tendenza, coinvolge e accomuna migliaia di persone, ti rendi conto che ti trovi dinanzi ad una cosa stupenda: la fratellanza.
Andare allo stadio e trovare i tuoi “fratelli” dona una sensazione favolosa. Correre alla stazione e trovarti accanto un “pazzo” che spinge affinchè si realizzi il sogno che vive dentro te ti annienta dall’anima il vocabolo: solitudine.
Tutto ciò è straordinario, meraviglioso. E’ vita. E va assolutamente vissuto.
Ma va anche necessariamente regolamentato, salvaguardato e non può più essere alla mercè di presunte volontà occulte.
C’è qualcuno – probabilmente non “malato” di calcio – che certifica come complice chi si lamenta di una realtà spiacevole e non muove un dito affinchè essa cambi. Questo qualcuno probabilmente ha ragione.
Il tifoso di calcio non può avere appiccicato sulla pelle il paradosso di vivere una cosa straordinaria macchiata dalla tracotanza di qualcuno.
Non può esistere un alone nero pronto a violentare, mortificare ed incattivire l’anima dei seguaci del gioco del calcio.
Non può esistere una perfida sagoma invisibile che con il suo fare prepotente ed irriverente acuisce sentimenti di frustrazione profonda che finiscono per affondare le radici in fatti storici passati che nulla hanno a che vedere col pallone.
Il calcio deve essere gioia non un diffusore di acredine rabbia e rancore.
Ed oggi, per l’ennesima volta, non è così.
Stamane una città intera fatica ad alzarsi, fatica a mettersi in moto. Sente il peso di un torto che lacera l’anima.
Negli occhi dei napoletani scorrono fotogrammi scellerati e inaccettabili: l’immobilismo di Handanovic sul gol di Higuain, le mosse impunite di Kung Fu di Pjanic, i labiali di Tagliavento ed Allegri.
Ombre caravaggesche. Intense, pesanti.
Fiorentina-Napoli non è mai iniziata. Tutto è finito quando il pallone calciato da Cuadrado è carambolato su Skriniar ed è finito alle spalle di Handanovic.
Mancavano una manciata di minuti al termine della gara, il risultato era ottimo per gli azzurri, ma noi eravamo affranti.
L’inconscio aveva già battuto la logica.