Oggi è il turno di Hysaj. Dequalificato, mortificato, promosso a simbolo dell’anti-calcio.
Ieri, in effetti, sul prato dello stadio San Paolo si sono visti scempi calcistici da parte dell’albanese del Napoli. Ma può un professionista essere considerato il giorno prima mister quaranta milioni e il giorno dopo solamente idoneo a partecipare alla classica partitella settimanale con i nostri amici?
Una cosa possiamo dirla con estrema certezza: equilibrio e calcio nutrono reciprocamente una profonda antipatia.
Troppi e frequenti sono gli sbalzi umorali che caratterizzano un giudizio, troppo ampia è la forbice che certifica la qualità complessiva di un professionista del pallone. Basta un’annata straordinaria a cui ne segue una disastrosa per assegnare al calciatore in questione l’etichetta di campione prima e bidone poi. Anzi, forse basta anche un arco temporale più ridotto, persino i novanta minuti di una singola partita.
Spesso ci si dimentica che i calciatori sono uomini prima che professionisti, sono persone fatte di carne, ossa ma soprattutto mente, vero motore del successo o dell’insuccesso. In serie A, massima espressione del calcio nostrano – a maggior ragione in squadre di primissimo livello – i calciatori sono tutti bravi e, al netto di differenze che comunque esistono, il vero scarto lo fa la testa. Nella vita di un calciatore tanti fattori possono variare al cospetto delle poco modificabili qualità tecniche: l’autostima, la serenità, la convinzione, l’esaltazione, l’ottimismo, la mente sgombra.
Non dovete andare lontani da casa vostra per fare un semplice giochino confermativo. Citiamo sei nomi a caso, tutti però impreziositi dalla casacca azzurra: Mertens, Milik, Koulibaly, Allan e Hysaj, appunto. Tutti questi calciatori, da quando sono a Napoli, hanno avuto appiccicata alla fronte, in maniera alternata, l’etichetta di calciatore “normale” e quella di campione indispensabile.
Ma allora cosa sono? Calciatori normali o imprescindibili?
Forse siamo tutti vittime di ansia da catalogazione, forse si agita in noi la voglia spasmodica di incasellare a tempo indeterminato i calciatori in quello che riteniamo (erroneamente) il loro posto, in una sorta di posizione rigida, poco elastica, inflessibile.
Nulla di più sbagliato. I calciatori sono una specie in frequente evoluzione, l’epilogo della loro storia professionale dipende da tanti fattori, molti dei quali non facenti parte della sfera squisitamente tecnica ma magari emotiva, sentimentale, familiare, logistica. Aspetti che non vengono presi mai in considerazione da parte di una critica che soffre della sindrome del verdetto precoce.
Durante il primo anno a Napoli Kouibaly sembrava Colley della Sampdoria; quando si vide all’opera per le prime volte Allan in casacca azzurra si esaltarono solo le qualità imprenditoriali dei Pozzo; quando Mertens non era altro che il rincalzo di Insigne si evidenziò la sua incapacità congenita di incidere dal primo minuto; quando si è vestito Milik da bluff ci si è dimenticati che fino a qualche mese prima aveva una sola gamba abile.
L’elenco potrebbe essere infinito ma lo interrompiamo per non annoiarci.
Ma forse abbiamo chiosato dicendo una sciocchezza: queste continue classificazioni dei calciatori azzurri, affrettate, altalenanti ma col sapore della sentenza, ci hanno già annoiato.