Un mese e mezzo fa il campionato di calcio di serie A è stato (a fatica) sospeso e, da allora, non si è smesso un solo giorno di ipotizzare una ripresa delle attività agonistiche. Abbiamo assistito ad una sorta di sdoppiamento psicologico, quanto inconscio, non è lecito saperlo: da un lato la realtà, fatta di infettati, di morti, di difficoltà economiche, di regressione, di angoscia e paura. Dall’altra, l’irrazionalità, quella che ha destinato un fiume di chiacchiere inutili al congelato mondo del pallone.
Si è modellato il ridicolo. Sarebbe troppo riduttivo dire che si è solo sfiorato. Il mondo ha conosciuto il nefasto, ha rinunciato alla vita, si è rinchiuso nelle sue incertezze, nelle sue paure, non soltanto tra le quattro mura di casa. Eppure – contestualmente – c’era di parlava di calcio saltellando qua e là da un’inutilità all’altra. Per noi de IlPartenopeo non è stato così. Noi, abbiamo deciso davvero di fermarci. Ma non perché siamo stati più bravi, forse, siamo stati solo capaci di tenere gli occhi aperti sulla dolorosa realtà ed evitare che ci proiettasse in un mondo metafisico che ci estraniasse da essa.
Eh si, perché parlare di calcio era kafkiano, era astrazione. Abbiamo vissuto quarantacinque giorni surreali conditi da solitudine e tanta paura. Abbiamo attraversato le strade cittadine solo per necessità eppure, i segni che ci hanno lasciato sulla pelle le sensazioni provate li porteremo con noi per tutta la vita: cercare di evitare chi giungeva in direzione opposta, allontanarsi dalle persone in attesa fuori gli esercizi commerciali, avere addosso la costante paura del contagio, sono tutte istantanee di uno spaccato di vita assurdo che non poteva non lasciare fuori la porta di casa il gioco del calcio.
Adesso la luce si è riaccesa. L’ha riaccesa il premier Giuseppe Conte che ha parlato del 18 maggio come data presunta per consentire nuovamente agli atleti degli sport di gruppo di tornare ad allenarsi.
Ma siamo sicuri che non si tratti di un flebile lumicino? E’ vero che la notizia c’è, ma è anche vero che è legata agli eventi che hanno in sé una variabile impazzita. Che piega prenderà la curva dei contagi? Che facilità di diffusione avrà il virus da oggi in avanti? Quanto saranno efficienti le indicazioni del governo nazionale e quanto bravi saranno gli italiani a rispettarle? Sono tutte domande che oggi non hanno risposta.
Come si fa, dunque, anche a distanza di quasi due mesi dall’esplosione della pandemia, a dare per certa una data per la ripresa delle attività agonistiche? Ci sembra evidente si siano solo aperti irrisori spiragli, ci sembra corretto dire ai nostri lettori che, ancora oggi, è impossibile ipotizzare la data di ripresa dei campionati. E ricordiamo anche che riprendere le attività agonistiche di gruppo (sempre che si faccia) non significherebbe tornare a giocare.
Questa è la realtà dei fatti, quella lucida e razionale ma anche triste ed avvilente. Poi c’è quella onirica: quella di chi vuole portare a termine la stagione a qualsiasi costo. E’ infatti questo il mantra che circola tra le stanze del calcio italiano terrorizzato dalla consapevolezza che, non riuscire nell’impresa, creerebbe danni per centinaia di milioni di euro e metterebbe spalle al muro l’intero sistema.
Parliamo di un qualcosa che è molto vicino all’utopia.
Bisogna azzerare la diffusione del virus, capire come giocare evitando contatti (non ci prendete per matti, siamo ironici), riorganizzare i calendari a livello nazionale e, cosa non di minor difficoltà (vista la disomogeneità delle situazioni nelle varie nazioni europee), intervenire anche sui format di Champions ed Europa League. Credete possibile che tutto ciò accada in poco tempo?
L’Italia ha fatto sua per un mese e mezzo la seguente espressione: distanziamento sociale. Che l’Italia pallonara faccia sua la propria: disillusione.