Il campionato riparte. Ma voi, siete contenti? Vi pongo questa domanda perché il 20 giugno si riaccendono i motori della serie A ma io mi sento ancora ai box.
Non è semplice dare una forma alla mia sensazione, non è per nulla facile modellare un’emozione. Il calcio riparte e, per quanto lo amo, ne dovrei essere felice. Eppure, non lo sono. Provo a scavare dentro di me, cerco di attraversare i tortuosi percorsi che compongono la mia anima, cerco risposte. Forse – mi dico – è come separarsi dalla donna che si amava alla follia ed accorgersi, dopo un ricongiungimento, di non riconoscerla piú? Ma perché?
Diciamo subito una cosa lapalissiana: il calcio riparte perché deve ripartire. Non a caso, nel nostro Bel Paese, non è lo sport tutto a ripartire ma solo quelli che, pur mantenendo ancora questo nome, muovono masse immani di danaro.
Giá questa è una considerazione talmente amara da disgustare le mie delicate papille gustative.
Come si puó accogliere con gioia la ripresa di un evento che non riparte con l’intento di colmare di gioia gli ormai aridi cuori di migliaia di appassionati ma solo per instillare liquiditá nei prosciugati e sofferenti indotti economici dei diretti interessati?
Come si fa a trasformare in goduria un ribrezzo, una disapprovazione in compiacimento? È come se la sfera sentimentale fosse stata schiaffeggiata. Davanti ai miei occhi questa realtá calcolata e cinicamente razionale fa a cazzotti con le scene di tifosi festanti, con quelli che versano lacrime di gioia, con le attese spasmodiche, con tutto ció che è emozione pura, con tutto ció che, per me, è l’unica cosa che conta nella vita.
Forse quello sbagliato sono io? Forse ho sempre toppato a consegnare tra le mani di un business la mia voglia di brividi? Forse si, forse no, non lo so. Ho sempre scelto di amare la marionetta ed ignorare il marionettista. Non mi interessava dove portassero quei fili e da chi fossero sostenuti. Mi cibavo dell’emozione che provavo nel vedere lo spettacolo. Ero felice cosí. Ero uno stupido? No, forse ero solo un innamorato.
Un velo di contraddizione accompagna le mie parole: amarezza ma anche di speranza: forse il calcio deve solo essere nuovamente iniettato nelle mie vene per tornare a circolare nel mio corpo e raggiungere il mio cuore. Forse è solo una questione di tempo. Forse, ho solo bisogno di sfiorare con la mano le acque del mare per essere nuovamente persuaso dalla voglia di tuffarmi.
Il calcio è fermo da tre lunghi mesi, congelato in una ampolla cosí fragile da essere stata manipolata con cura da tutti gli addetti ai lavori. Far quadrare il cerchio è stata una impresa, abbiamo assistito ad un interminabile tergiversare tra le parti, ognuno a difesa dei propri interessi. Come nella piú classiche delle battaglie abbiamo vissuto di schieramenti: da un lato i calciatori che, da uomini prima che professionisti, hanno cercato di tutelare la salute propria e quella dei familiari; dall’altro la macchina economica, una delle piú produttive del Paese.
Complicato far quadrare il cerchio, un cerchio che, forse, non si è mai chiuso, nonostante la decisione di riprendere. Troppe sono ancora le nubi, mai diradate, sempre presenti, minacciose piú che mai. Cosa accadrá nella malaugurata ipotesi vi fosse un nuovo positivo tra gli addetti ai lavori? Il decreto parla chiaro: quarantena fiduciaria per tutto lo staff. Traduzione? Campionato nuovamente fermo.
Voglio essere chiaro: mi sembra inverosimile immaginare uno scenario che possa ipotizzare l’ennesimo stop di una macchina rimessa in moto con tanta fatica. L’alternativa, troppo maliziosa per essere esternata, la consegno alla vostra immaginazione.
Comunque sia, si riparte. Senza pubblico, senza pathos, con noi addetti ai lavori avvolti dal mistero: potremmo essere presenti agli eventi? Potremmo raccontare le emozioni del terreno di gioco? Forse si, sempre che le si trovi.