Mi sveglio. Mi alzo. Mi preparo. Scendo. Come tutte le mattine. Il lavoro mi aspetta.
La notte non ha dissipato ancora l’adrenalina che sento scorrere ancora sulla mia pelle. Il percorso verso la sede lavorativa è un viaggio a ritroso, una corsa frenetica che mi fa toccare nuovamente con mano tutte le emozioni provate la sera precedente.
Ma il tempo per sognare non è tanto, il percorso casa-lavoro è già terminato.
La scena che mi si pone davanti è l’antitesi dell’apoteosi festante terminata da qualche ora: all’esterno dell’Istituto è tutto deserto. La lucidità riaffiora in me e mi ricordo che la scuola è chiusa.
Rientro a casa col sorriso sulle labbra ed una consapevolezza che consolida sempre più la sua essenza: ho pagato le conseguenze di una serata di ordinaria follia.
Oggi, come ieri, è davvero dura tramutare le emozioni provate in narrazione. Dinanzi ai miei occhi scorre veloce una pellicola chilometrica composta da fotogrammi limpidissimi che hanno le stimmate del paradiso.
Ho provato con tutte le mie forze a stemperare la tensione che da lunedì scorso ha tentato di insinuarsi nel tessuto del mio stato d’animo e sono pure riuscito a tenerlo a bada sino al pomeriggio di ieri. Poi ho ceduto.
Ansia, ansia e ancora ansia.
Il cuore che batte forte, le lacrime di emozione pronte a venir giù copiose come le piogge nello Stato del Parà. Il tutto che non ha inizio contemporaneamente al pronti-via della gara, ma già da quando gli azzurri partono per Torino spinti da una città entusiasta e sognante. Fuorigrotta che imprigiona il pullman degli azzurri ha senso come il colonnato di Bernini a Piazza San Pietro a Roma.
Poi finalmente la gara. Pronti via e il Napoli c’è. Ce lo dice la disinvoltura delle giocate, la serenità, la consapevolezza, la voglia, ma ce lo dice soprattutto una Juventus sparita da un campo che l’aveva vista sempre trionfare.
I minuti trascorrono lenti ma inesorabili, il risultato non si sblocca, il sogno scudetto si allontana, ma la prestazione sciorinata appaga comunque il popolo azzurro.
Quando Koulibaly tocca il cielo viene raggiunto da una città intera. Un salto poderoso diventa un fotogramma incancellabile. Quelli che seguono sono tre minuti di trepidante e interminabile attesa. Gli occhi alla tv non sono altro che occhi ad un cronometro che muove le sue lancette con la lentezza di un bradipo. Quando Rocchi porta il fischietto alla bocca mette fine alla sofferenza del cuore. Ed è delirio. Ovunque.
Napoli impazzisce, si riversa per strada, si assiste a scene degne parenti di quelle viste il 10 maggio 1987. La gente ha forse finalmente capito che il campionato lo si è vinto ieri.
Io non ho più esultato. Mi ha pervaso una stato comatoso.
Ma adesso è il caso di svegliarsi. Domani il lavoro mi attende davvero.