“All’Inter avrei dovuto lottare per il posto, chissà quante partite avrei giocato… Non c’era un piano concreto per me. Quando si è giovani bisogna giocare, altrimenti non se ne può far nulla. Ne ho parlato spesso con mia madre e non era convinta. Non voleva che andassi via, io la amo e questo mi ha portato a pensare. A tre settimane dall’inizio del ritiro estivo, ho detto a mio padre che sarei rimasto al Feyenoord”.
Parole di Tonny Emilio Trinidade de Vilhena, centrocampista olandese del Feyenoord che ha da poche ore rifiutato il trasferimento all’Inter. Tonny Vilhena ha emulato il suo collega Davy Klaassen che, ad inizio mercato, ha respinto le lusinghe del Napoli ed ha preferito completare la sua maturazione all’Ajax. Perché abbiamo riportato il virgolettato del calciatore olandese di origine angolana? Lo abbiamo fatto perché trasudano umanità e, spesso, quando si parla di calcio ed in particolar modo di calciomercato, dimentichiamo un po’ tutti che stiamo parlando di uomini, prima che di calciatori professionisti.
Nel calcio moderno siamo abituati a guardare i calciatori come dei fenomeni da circo: ci affezioniamo, gioiamo e soffriamo per loro, ma per noi rimangono pur sempre delle propaggini legate al nome della nostra squadra. E passa in secondo piano che siano principalmente degli uomini, con una vita, dei legami, delle esigenze. E’ vero, stiamo ragionando di personaggi che, a volte, sono delle vere e proprie aziende, macchine per far soldi, mucche da mungere per i procuratori e gli improbabili personaggi che gravitano attorno a loro come avvoltoi pronti a spolparne le carni fino all’osso.
Eppure il calciomercato è pieno di storie come quella di Vilhena o come quella di Klaassen. E le trattative, perno delle discussioni nei salotti televisivi estivi, affollati di esperti e di Carneadi del giornalismo nostrano, diventano chiacchierate aride, bombe da far deflagrare sulla ribalta mediatica per assecondare obiettivi di share o, peggio ancora, servire autentiche bufale DOP.
Il calciomercato è, prima che un mondo di mercenari assetati di soldi, l’epicentro delle fantasie di tutti i tifosi, la zona franca in cui si azzerano i risultati del campionato e tutti possono sognare che la propria squadra compri il nuovo Messi ed il nuovo Ronaldo, ribaltando le gerarchie e rimodellando la griglia di partenza per la nuova stagione. Il mercato è per tutti noi una fucina di sogni, una fiera impazzita di nomi esposti in vetrina come giocattoli e noi si torna bambini, bramosi di averli tra le mani e di poterci trastullare nell’immaginazione.
E’ un gioco che piace a tutti, in primis ai tifosi di calcio, il vizietto a cui tutti abbiamo ceduto almeno una volta nella vita. Come brezza allieta l’arsura delle notti d’estate e svela, ai nostri occhi assetati di calci ad un pallone, i volti immaginari dei nuovi grandi acquisti. Il calciomercato è un caleidoscopio di sogni, al quale affidiamo le nostre legittime speranze di vittoria, anche se perfettamente consapevoli che poco o nulla cambierà, che chi è favorito rimane favorito e chi è debole rimane debole. Ne rimaniamo storditi e ne usciamo ubriachi.
Ma le squadre e per fortuna chi le costruisce davvero lo sa, non si fanno con le “bombe mediatiche”. Le squadre si fanno con la competenza, con la pazienza e soprattutto tenendo conto dei parametri, economici e tecnici oltre che delle contingenze umane. Non si va al mercato delle figurine, qui si muovono capitali, destini e storie umane. E per fortuna la realtà del mercato è fatta anche dai Tonny Vilhena, uno che preferisce dire no all’Inter per rimanere a casa sua, a maturare ancora un po’. E non è colpa di nessuno, perché è legittimo che un ragazzo preferisca formarsi ed aspettare ancora prima di spiccare il volo. Legittimo, benché non usuale e assai poco comune.
Ci piace raccontare storie come questa, perché si tratta di mosche bianche nel marasma del professionismo del calcio mondiale. Il sistema impone al giocatore di crescere anzitempo, di diventare un campione e di spillare il contratto migliore, a dispetto dei gusti, dei legami, dei bisogni e dei sogni di un ragazzo di quell’età. Gli si inculcano come paletti inossidabili il principio del guadagno e della vittoria a tutti i costi, diventano questi i parametri da seguire, gli unici davvero che abbiano senso. Ed è così che si distruggono gli uomini e poi anche i campioni.
Abbiamo tutti strabuzzato gli occhi dopo i “no” al Napoli di calciatori come Vrsaljko, Zielinski e Lapadula. Non stiamo parlando di top players e nemmeno di uomini, ma di ragazzini di 20 anni che poco sanno della vita e del mondo, che sono essi stessi vittime di quei parametri e di quella cultura della vittoria e dell’arricchimento incondizionato. Vittime di un mondo che non ha nessuna pietà di loro, che li utilizza e li manipola.
A 20 anni vogliono andare a giocare a Madrid, a Liverpool, a Milano, nei club da sempre sognati, i cui nomi significano fama e soldi. In essi intravedono la gratificazione immediata, l’arricchimento improvviso, la gloria facile. Perché reputano di esserne in grado, di non aver nulla ancora da apprendere e non temono certo di bruciarsi anzitempo. In alcuni casi può andar bene, certo. In altri meno. Ma quel che conta è che questa è la regola, che è normale che sia così e che vada in questo modo.
Tonny Vilhena, invece, è l’eccezione. Lui non ha difficoltà a dire “no”. Tira in ballo la madre, ne considera il pensiero e ne segue i consigli. Altri preferiscono seguire quelli dei procuratori, li ascoltano come si fa con dei Guru da assecondare e venerare, salvo poi finire sbriciolati in questo enorme tritacarne che è il mondo del calcio.
E’ innegabile che, per chi vi scrive, raccontare storie come questa regala un certo appagamento, una soddisfazione misurata che si accompagna ad un sottile senso di piacere. Come se, una volta tanto, il moto della traiettoria sfugga dalla legge fisica che la governa, uno spiffero rivoluzionario che spira, maestoso, in un deserto di normalità. Ci auguriamo che il futuro sia prodigo di soddisfazioni e munifico di vittorie con Tonny Vilhena. Un tale coraggio e tanta fermezza, una volta tanto, meriterebbero un epilogo assai felice.