Dal minuto 74°, momento in cui Arkadius Milik ha abbandonato il terreno di gioco, Dries Mertens è stato un uomo senza ombre. Si è voltato verso la panchina azzurra, non ha visto nessuno che potesse rubargli la scena e si è impossessato degli ultimi sedici metri. Da quel momento è salito in cattedra. Non solo segnando il rigore della tranquillità e servendo un assist al bacio per l’incredulo Rog ma soprattutto palesando quella spensieratezza che alla corte di Sarri lo ha proclamato bomber vero.
Quel sorriso rivolto ai tifosi festanti non lo vedevamo da tempo. Non giriamoci intorno, Dries non era più il solito: giochicchiava, si dimenava tra giochi di sterile funambolismo risultando infruttuoso e inconcludente. Ma perché questa involuzione?
Torniamo un attimo alla radice. Rientrato dal mondiale, alla faccia di un solo apparente turnover totale, Dries ha capito che la scena non fosse più tutta sua. Le logiche economiche (Non solo quelle tecnico/tattiche) spingevano verso questa soluzione. Il belga ha accusato ma accettato, in virtù dell’amore provato per questa maglia ma anche per rispetto di logiche normali presenti all’interno di un organico di grande livello.
Ma a seguito di prestazioni non certamente esaltanti del pacchetto avanzato (Ovviamente Insigne a parte), la questione va posta. Non tanto in termini numerici: (12 reti in tre: 6 Insigne, 3 Milik e 3 Mertens sono un ottimo bottino dopo 9 giornate), a lasciare qualche perplessità c’è una sensazione che aleggia nell’aria e avvolge gli attaccanti azzurri, si chiama: fiducia totale. Quella di cui gode, ad esempio, Lorenzo Insigne. L’esplosione di Lorenzo non è casuale, è dettata da una convinzione che si è ben radicata nell’animo del folletto di Frattamaggiore, quella di essere insostituibile. Lorenzo è schierato sempre, non è vittima di dualismi, gode di un qualcosa che non è più di moda nella società odierna: il posto fisso. Senza il timore di perderlo riesce ad esprimersi senza aver paura di sbagliare. E’così che si innesca quel meccanismo per cui poi finisce per andarti tutto per il verso giusto.
Milik e Mertens (Meno ancora Verdi), ad oggi, non hanno questo privilegio, sono sempre sotto esame, non godono di fiducia cieca, non si sentono imprescindibili ed insostituibili.
Ma non è facile stabilire se quello di cui abbiamo parlato è un limite del calciatore o una piccola falla nella gestione da parte dell’allenatore. Non sappiamo nemmeno se, magari, un discorso a parte vada fatto per un attaccante.
Gli esempi da cui prendere spunto per provare a tracciare una linea di pensiero sono tanti, ma spesso in contraddizione tra loro. L’improduttivo dualismo tra Mertens e Insigne prima che si infortunasse Milik ha prodotto mediocri risultati da parte di entrambi, così come l’opaco Dybala di quest’anno, oscurato dalla stella più luminosa del panorama calcistico; oppure il primo Dzeko romano, imploso nella convinzione di essere una pippa dopo aver segnato gol a raffica tra Wolfsburg e Manchester City.
Ma ci sono anche esempi contrari: Icardi e Immobile su tutti. Titolari inamovibili e forse non a caso marcatori incalliti. Oppure, come già detto, lo stesso Lorenzo Insigne, non più incartocciato nell’infinito dualismo con Mertens e animato dalla necessità di dimostrare per meritare.
Per il momento ci godiamo un grande Napoli, provando ad accendere la luce su dettagli che potrebbero renderlo grandissimo: devono essere Milik e Mertens a fare un passetto avanti affinchè siano pienamente convinti dei propri mezzi a prescindere dalla scontata titolarità, oppure deve essere Carlo Ancelotti a donare ad uno dei due la stessa dose di convinzione che ha servito su di un piatto d’argento a Lorenzo Insigne?